Italia, Paese della gastronomia, dove il settore alimentare è ai primi posti, con il vino simbolo di una cultura del territorio in costante crescita di popolarità e apprezzamento internazionale, dove i cuochi sono star e la popolazione si muove e viaggia per gustare e degustare. Dove anche i millennials aspirano a lavorare in cucina. Tutto ciò premesso, dovremmo avere numerose università e corsi post universitari sull'argomento, che consentano di preparare in modo professionale e completo i nostri giovani. E invece no. Neanche l'ombra.
Eppure qualcuno ci ha provato: precisamente nel 2015 quando Expo Milano dedicato all'alimentazione ha posto l'Italia al centro del mondo del food. Fu Gualtiero Marchesi a prendersi il "due di picche" dall’allora ministra dell'Istruzione Stefania Giannini, quando propose di creare un’Università della cucina e si sentì rispondere che i corsi, già troppo numerosi, andavano chiusi e non aperti.
Così anche in questo campo, il nostro, ci siamo fatti superare da numerosi Paesi, europei e non solo. Dalla Spagna alla Francia con Alain Ducasse e la sua "Cordon Bleu" a Parigi o Paul Bocuse con un master a Lione accreditato da un'università spagnola. E proprio le ricerche universitarie avevano sostenuto il boom dei cuochi spagnoli. Loro hanno capito come funziona l'Europa. Noi al palo, o quasi. Perché alcune scuole, serie e ben fatte, esistono, ma non a livello universitario. Pensiamo a Ifse a Torino, Alma a Colorno (Pr) di cui è Rettore proprio Marchesi, l’Accademia Etoile di Boscolo a Tuscania (Vt). Si distingue Pollenzo a Bra (Cn) dove la scuola di cucina è una realtà parallela al corso in scienze gastronomiche. Ci sono poi altre scuole pure importanti, ma meno strutturate, come Itk, Italian Kitchen Academy di Roma, o per restare sempre nella capitale Coquis. E fra le tante altre ricordiamo la Saps-pentole Agnelli di Lallio (Bg), la Food Genius Academy a Milano o il Master della Cucina Italiana di Vicenza con il tristellato Massimilano Alajmo.
Gli Stati Uniti, la cui cucina non è certo bandiera nazionale, si sono inventati la "culinology" mix di culinary e tecnology e la insegnano all'Università del Vermont nel Kendall College di Chicago. E noi da bravi esterofili li andiamo ad ossequiare invece di prendere in mano la situazione. Persino a Kuala Lumpur nella improbabile Malesia gastronomica la "Taylor's University" forma cuochi e maitre con un diploma in "Culinary Arts". È ora che si ragioni e si proceda nel dotare l'Italia di corsi universitari adeguati, capaci di formare grandi professionalità e di attrarre studenti da tutto il mondo, che oggi invece, in particolare dall'Asia e dalla Cina, vanno a formarsi in Svizzera a La Rochelle, università di hotellerie di proprietà francese. E questo in Svizzera... dove al di là della Raclette c'è il nulla. Marchesi non demorde, vuole arrivarci e sta lavorando con passione e attenzione per superare i problemi, ma non può e non deve essere l'unico a bussare alla porta del miope Ministero.
Da noi è tutto un parlarsi addosso, magari creando associazioni dai nomi roboanti che richiamano alla diplomazia internazionale, ma che, al di là di autocelebrazioni, sono inutili e non servono certo a formare alte competenze diffuse. Il padre nobile della cucina italiana, dalle cui cucine sono uscite intere brigate di chef televisivi e non, ha ricevuto in questi giorni una proposta dall'Institute of food and Nutrition Development in Cina che gli chiede di partecipare al loro progetto "Food science, ingenering cooking and nutrition education. Magari se l’attuale ministra Valeria Fedeli non risponderà anch’essa potremmo assistere all'ennesima fuga all'estero, non di un cervello, ma di un genio…
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