È in arrivo il “robot chef”, che cucina imparando tecniche e movimenti dai cuochi stellati. Ma la cucina creata da una macchina non avrà futuro né una recondita ragione di essere. Non si può rinunciare al tocco “umano”.
Quando comparvero nelle cucine domestiche le prime pentole a pressione furono subito ben viste dalle casalinghe per praticità e soprattutto velocità di cotture. I cuochi professionisti di allora, però, specie i più anziani, le vedevano come una sorta di diavolerie malefiche contrarie al rispetto del prodotto e ai vecchi metodi di cucina.

Acqua sotto i ponti ne è passata, e tanta tecnologia a giusta ragione è approdata nelle cucine e in aiuto al nostro lavoro d’ogni giorno, grazie anche ad una maggiore consapevolezza e soprattutto a più rilevanti conoscenze da parte delle nuove generazioni di cuochi. Professionalmente parlando sono per l’innovazione tecnologica - e la stessa Federazione italiana cuochi in questo nuovo percorso ne è artefice - ma sempre nell’ottica del rispetto del prodotto e delle tradizioni di tutte le culture culinarie.
Una notizia apparsa sui giornali mi ha però leggermente inquietato, e soprattutto allarmato per l’ingiusta considerazione della nostra professione: la presentazione di un prototipo di “robot chef” alla fiera di tecnologia tedesca di Hannover, primo modello di cuoco-androide ideato dalla inglese Moley Robotics. Naturalmente ha entusiasmato non pochi visitatori, assai incuriositi, e coloro che intravedono motivo di facile guadagno: il robot infatti versa, mescola, taglia, spadella e impiatta con la fluidità e la maestria di un cuoco stellato. È in grado di preparare per ora 2mila piatti. Non si stanca, non ha sbalzi di umore, non chiede ferie o congedi per malattia, produce e lavora ininterrottamente senza soste: una manna dal cielo (a parte il costo) per coloro che investono nella ristorazione.

Chissà cosa direbbe il grande Escoffier? Certo avrebbe da rivoltarsi nella tomba vedendo privare ad una professione definita vera “arte” la sensibilità, l’amore e il rispetto per il cibo. L’elaborazione gastronomica, intesa come piatto/pietanza, racchiude elementi che spaziano nella dimensione del gusto, nella ricerca dell’abbinamento di perfetta simbiosi tra ingredienti diversi e, cosa importantissima, il tanto amore e la passione per questo nostro mestiere, vera missione.
Così l’ha definita lo stesso il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, nella messa di apertura per i lavori del Congresso Fic 2017: «Cucinare è un vero atto d’amore verso il nostro prossimo, riconoscibile in ogni suo gesto!». Difatti la cucina è il risultato e l’espressione di una dimensione spirituale, evocativa, esperienziale. Poco importa che sia tradizionalista, fusion, molecolare o futurista, a base di insetti, vermi o carne prodotta in laboratorio, l’importante è che in tutti i casi non si perda il legame profondo della componente umana con la cultura di cui l’artefice, di volta in volta, si fa portavoce. Tutto questo una macchina, per quanto evoluta possa essere, non lo trasmette e non lo comunica al commensale, elemento inscindibile ed essenziale dove l’erudizione del cibo e del convivio riveste, più che aspetti fisiologici, assolute forme sociali e culturali. Un augurio di buon lavoro a tutti.