Capitale della Cultura... a tavola: Chiesa di Santo Spirito e Capù
Da un lato uno dei monumenti meno noti di Bergamo, dall'altro una ricetta tradizionale che viene dalle valli e che è conosciuta anche con il nome di Nosecc. Insieme, per raccontare un altro pezzo di Capitale della Cultura
Continua la nostra rubrica “Bergamo e Brescia tra storia e cibo”, nata con l'intento di celebrare le due meravigliose città, le loro ricche tradizioni e la prelibata gastronomia, nel contesto dell'anno della Capitale della Cultura. Attraverso un intrigante percorso, mettiamo in relazione un importante monumento storico di ciascuna città con un piatto o un prodotto tipico, creando un filo conduttore che unisce la cultura e la cucina.
Infatti, come abbiamo sempre sostenuto, la cucina, con la sua grande importanza, è una componente fondamentale della cultura di una città e del suo territorio, così come lo sono la storia e i monumenti che segnano e definiscono il tessuto urbano. Questa volta è il turno, per Bergamo, è il turno della Chiesa di Santo Spirito e del Capù.
Santo Spirito a Bergamo, una chiesa da scoprire
Non è uno dei monumenti più in vista di Bergamo la Chiesa di Santo Spirito, ma una volta raggiunta non lascia indifferente nessuno. Sarà per la sua facciata rustica, ma ben tenuta; o sarà per l’imponente scultura in bronzo che rappresenta la discesa dello Spirito Santo che incombe sul sagrato, grande e bellissima.
La struttura originaria dell’edificio faceva parte di un complesso monastico trecentesco: il desiderio di un folto gruppo di ricchi mercanti del Cinquecento di affermare il proprio status sociale non più solo attraverso i palazzi ma addirittura tramite una chiesa, la trasformò profondamente. La ristrutturazione della chiesa fu molto elaborata e vi lavorarono, in epoche diverse, i due maggiori architetti bergamaschi: Pietro Isabello nel Cinquecento e Gian Battista Caniana nel Settecento.
Proprio la sua incompletezza diventa particolarmente suggestiva, perché mostra alcune parti di finitura non completata, come la porzione di muratura sul lato sinistro, che di fatto è già inevitabilmente degradata e sembra voler comunicare la caducità del tempo. Il grande portale settecentesco presenta un fenomeno drammatico come quello della distruzione delle due statue e dello stemma della cimasa, quasi a voler testimoniare la violenza degli eventi.
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Una scultura dinamica e la Pala del Lotto
Notevole la forza dinamica della scultura di Francesco Somaini, costituita dal gruppo bronzeo intitolato La Discesa dello Spirito Santo che, inserendosi nella parte superiore della facciata, scende coinvolgendo l'apertura circolare soprastante il portale e quindi sembra entrare nell’edificio.
Un’imponente navata centrale accoglie all’ingresso i visitatori, con cinque cappelle per lato: nella quarta sulla destra si trova la meravigliosa Pala (olio su tavola) del Maestro del Rinascimento italiano Lorenzo Lotto, “Madonna con il Bambino, Santa Caterina d’Alessandria, Sant’Agostino, San Sebastiano e Sant’Antonio abate”, del 1521.
L’opera di maggior pregio presente nella chiesa è senza dubbio La Pala del Lotto, di cui è possibile ammirare il luminoso cielo con il turbinio di nuvole e angeli che incorniciano l’apparizione della colomba dello Spirito Santo. Ammirandola, è possibile riconoscere, nell’assetto maestoso e imponente dei personaggi, un rimando alla pittura del grandissimo artista rinascimentale Raffaello Sanzio, che affrescò anche le Stanze del Vaticano.
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Si può organizzare perfino una piccola “caccia alle epoche” osservando la facciata composita e mai completata: la base di pietra, il piccolo rosone (elemento decorativo a forma di finestrone circolare applicato alle facciate delle chiese di stile romanico e gotico) centrale e la finestra murata sulla destra sono risalenti al Trecento; sulla sinistra, l’attacco in muratura in pietra appartiene al Cinquecento, mentre le due nicchie e il portale sono del Settecento.
Il Capù, ricetta delle valli bergamasche
Quella dei Capù è una ricetta che parla delle valli bergamasche. La Val Seriana, in particolare, anche se una preparazione identica viene fatta anche in Val Brembana ma è conosciuta con un nome diverso: Nosecc. Di fatto, parliamo dello stesso piatto. Si tratta di teneri involtini di verza farciti con carne macinata e cotti in un delizioso sughetto di pomodoro. L’origine di questa preparazione è legata a una leggenda che narra la storia di un bambino di una povera famiglia di allevatori di montagna che, vedendo i genitori preparare dei prelibati involtini ripieni di cappone per le ricche famiglie della zona, si lamentava con la mamma perché non poteva mai mangiarli. La madre escogitò un piano per non deludere il figlio: prese un po’ di ripieno - senza carne, ma comunque ben saporito - e l’avvolse in una foglia di verza, la fece bollire e poi la servì al piccolo, che poté così gustarsi finalmente il suo “capù” (ovvero cappone in dialetto bergamasco). La ricetta arcaica prevede quindi un ripieno di magro (del resto, ai quei tempi, chi poteva permettersi di fare delle polpette di carne? Pochissimi) ma quella che si è poi diffusa maggiormente è realizzata con una farcitura di carne. I Capù, conosciuti anche come Nosecc in base alla zona di provenienza, sono ancora oggi un piatto molto amato, tanto da vantare una sagra dedicata a loro.
Per prepararli basta far bollire abbondante acqua salata in una pentola, immergere le foglie di verze, lasciarla bollire per 2 minuti e poi scolarla. Nel frattempo preparare il ripieno sminuzzando i cotechini, metterli in una ciotola e aggiungere il formaggio, il pane, il prezzemolo, le uova e tanto brodo quanto basta per ottenere un ripieno morbido. Infine aggiustare di sale e pepe. Prendere poi una pentola, aggiungere e scaldare l’olio evo e far appassire la cipolla, aggiungere la passata di pomodoro, un bicchiere e mezzo d’acqua poi portare a bollore e abbassare la fiamma al minimo. Battere con il batticarne la parte dura delle foglie, porre al centro una pallina di ripieno e chiudere prima le estremità, poi quelle laterali avendo cura che l’involtino sia ben sigillato. Arrotolare con lo spago da cucina in modo che non si aprano durante la cottura.
Ripetere il procedimento con le altre foglie. Una volta pronte, adagiarle nel sugo e farle cuocere una mezz’ora, stando attenti a non far bruciare gli involtini. Che saranno poi pronti per essere serviti, magari con una bella porzione di polenta.
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Alberto Lupini