Stoppani: Ristoranti maltrattati Così il settore rischia il tracollo
Il presidente della Federazione Italiana Pubblici Esercizi sulla decisione del Governo di aprire i locali solo il 1° giugno: «Penalizzazioni che ridisegnano un intero modello di vita» . Mentre sul via libera all’asporto, Stoppani dice: «Un atto dovuto, ma la nostra vocazione é quella di accogliere i clienti»
27 aprile 2020 | 14:00
di Sergio Cotti
Ristoranti chiusi fino al 1° giugno
Da domenica sera sappiamo che le serrande di bar e ristoranti resteranno abbassate fino al 1° giugno, dando sempre più forma ai timori che il numero uno della Fipe va prefigurando da tempo. Ai 25 miliardi di euro già persi dall’inizio dell’epidemia in Italia, se ne aggiungeranno circa altri 9 nel mese di maggio, con il rischio che in tanti, all’appuntamento della riapertura, si vedranno costretti a non rialzare nemmeno la saracinesca. Mentre per quel che riguarda il valore dei mancati acquisti in cibi e bevande per la preparazione dei menu, secondo Coldiretti la perdita salirà a 5 miliardi di euro, proprio per effetto del lockdown prolungato.
Presidente Stoppani, qual è stato il suo primo pensiero all’annuncio del premier?
È un provvedimento che ha contrariato persino la Cei e questo è tutto dire. Siamo consapevoli che questa malattia è complicata e produce tanti morti. Trovo tuttavia questo decreto un po’ contraddittorio: da una parte Giuseppe Conte ha annunciato uno slittamento dell’apertura dei negozi, che ora è cosa certa; dall’altra ha annunciato anche provvedimenti di sostegno che dovranno essere messi in campo per sostenere i diversi settori, che però oggi vedono un differimento delle date di riapertura delle loro attività, con una situazione che rischia di peggiorare ulteriormente.
Lino Enrico Stoppani
Manca ancora più di un mese alla riapertura, un’eternità. I segnali, però, erano diversi.
Da settimane si parla dei protocolli per le ripartenze, differenziati a seconda delle attività; noi abbiamo provveduto alla stesura di quello che riguarda il nostro settore, sia per portarci avanti, sia per capire se fosse davvero sostenibile. E questo ha alimentato delle aspettative nei nostri imprenditori, confermate dal fatto che l’Inail, nel suo protocollo di valutazione, ha individuato nella ristorazione un comparto a basso rischio professionale per il contagio da coronavirus. Ora invece ci vediamo fissare una data al 1° giugno, senza una precisa motivazione, e ciò è molto penalizzante.
Per il solo mese di maggio le previsioni parlano di un’ulteriore perdita intorno ai 9 miliardi di euro.
Sì, e qualcuno ci dovrà dire come faremo a coprirla. Non solo: maggio è il mese in cui si organizza il lavoro stagionale e si definiscono i contratti; posticipando la riapertura al 1° giugno in tutta Italia, si rischia di danneggiare ulteriormente un settore già in grande difficoltà.
Lei sarebbe stato favorevole a far riaprire prima i ristoranti in alcune regioni?
Sì, con tutte le precauzioni dal punto di vista della sanificazione, dell’uso delle mascherine, dei guanti e qualsiasi altro provvedimento che potesse creare sicurezza da parte del consumatore. Chiudere tutto, quando sappiamo che questa malattia è ramificata in modo diverso da territorio a territorio, mi sembra eccessivo. Ci sono aree del Paese che sono a rischio contagio molto basso, come la Sicilia. Un provvedimento di questa ampiezza, generalizzato per tutto il Paese, dimostra di non essere attento ad alcuni territori.
In altri Paesi europei i ristoranti apriranno già a maggio.
Molti Stati hanno chiuso dopo e riapriranno prima; in Francia, per esempio, i locali riapriranno l’11 maggio. Sono situazioni che mi fanno pensare male. In Italia è in atto un grave maltrattamento nei confronti del nostro settore. A meno che non siamo noi incapaci di farne comprendere i valori e l’importanza. Ma se così non fosse, mi vien da dire che sia in atto una strategia per deviare i flussi di domanda verso canali che fino a prima dell’emergenza avevano un peso marginale, come l’e-commerce gestito dalle piattaforme internazionali. Oppure ancora che ci sia un’avversione verso un modello di vita e uno stile di consumo italiani, apprezzati in tutto il mondo, che adesso qualcuno pensa possa meritare di essere rivisto, anche con queste penalizzazioni. Altre spiegazioni logiche non ne trovo. La mia non è un eccesso di irresponsabilità, ma è una constatazione.
C’è poi la questione degli indennizzi, di cui il premier ha parlato solo in maniera marginale.
Il nostro stato d’animo è di profonda preoccupazione, incomprensione e persino di disperazione, nei confronti di tanti imprenditori che rischiano il fallimento. Qui c’è il rischio di ritrovarci alla riapertura solo con macerie e con un tessuto di imprese che non hanno avuto la forza di stare in piedi. Per consolidare un’azienda servono anni, per rovinarle basta poco. E questo è il modo giusto per rovinarle.
Lei vede davvero della malizia nell’atteggiamento del Governo?
A pensare male, spesso ci si prende. Ma la mia vuole essere anche un’autocritica. Forse in questi momenti serve avere delle associazioni ancora più arrabbiate, strutturate ed autorevoli. Può darsi che siamo noi a non riuscire a trasferire i nostri valori: dopotutto non è ammissibile che un settore così importante per l’economia Italia, vetrina di tutta la filiera enogastronomica e dei valori di attrazione turistica, sia trattato in questo modo, con il rischio di demolire un tessuto di piccole e medie imprese che invece sono la fortuna di questo Paese.
L’unica buona notizia, per così dire, arriva dalla possibilità di praticare la vendita d’asporto.
È una cosa positiva, certo, che abbiamo chiesto in maniera insistente. Ma non è un riconoscimento, né un premio, è piuttosto un atto dovuto. Le controindicazioni sollevate nelle scorse settimane (su tutte quelle dei sindacati lombardi, ndr) erano pretestuose e ingiustificate. Poi è vero anche che i ristoranti hanno una vocazione diversa: il nostro lavoro è quello di accogliere le persone, non quello di mandarle a casa con i nostri pacchi. Dietro alla ristorazione non c’è solo il consumo di cibo e bevande, ma anche i grandi valori sociali di aggregazione, convivialità, dialogo e confronto, che ha fatto grande la ristorazione italiana.
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Alberto Lupini