«Ma che comportazione è questa?» La Sicilia nega le ferie ai posti fissi
Il dirigente della Regione Salvatore D’Urso ha bloccato i congedi per i dipendenti fino al 15 agosto: «L’80% dei lavoratori si gratta la pancia». Torna alla memoria il mito di Checco Zalone
31 luglio 2020 | 11:29
di Federico Biffignandi
Checco Zalone in una scena del film Quo Vado?
Il piccolo Checco Zalone in quel film vuole fare il “posto fisso” mentre i compagni di scuola sognano di essere astronauti, maestre e mestieri decisamente più tradizionali. O forse no, perché in fondo il mito del posto fisso è ancora radicato nel tessuto sociale italiano. Ma le cose - forse - stanno cambiando, anche grazie al lockdown e se un dirigente di Regione lava i panni sporchi in piazza ammettendo che l’80% dei propri dipendenti «si gratta la pancia» allora vuol dire che dal grande schermo si sta arrivando alla realtà.
Il passo cruciale è proprio ammettere e prendere provvedimenti, accorgersi che i dipendenti pubblici siano troppi e troppo spesso nullafacenti, inutili, ininfluenti e pure “truffatori” (le vicende dei cartellini non si contano più) non basta più perché questo è il momento di grande difficoltà che chiama ad agire, essere onesti, soprattutto impopolari.
Sì, impopolari. Nessuno può negare che sentire dire ad un dirigente di Regione una frase del genere crea sgomento, anche imbarazzo, sicuramente perplessità. E infatti i dipendenti pubblici che per l’80% passano giornate a timbrare carte a ripetizione, ricevendo favori e favoritismi (sempre per ispirarsi alla macchietta creata dal Checco nazionale) si sono subito indignati; e con loro anche i sindacati che subito ne hanno preso le difese rifacendosi all’articolo 32 della Costituzione italiana secondo cui i lavoratori necessitano delle ferie per curare l’integrità fisica e psicologica. «Dopo quattro mesi a casa, si permettono di dire che “psicologicamente” non sono pronti a lavorare? Cose da pazzi», ha ribattuto il dirigente D’Urso.
Salvatore D'Urso
È chiaro che negare le ferie ai lavoratori possa essere un gesto anticostituzionale appunto e che lo smart working e più in generale il periodo di lockdown realmente possa aver minato la serenità di molti italiani. Così come è chiaro che ripensare alla propria estate debba essere un dovere sia dei dipendenti, ma anche dei datori di lavoro: salvare le aziende (pubbliche o private che siano) sì, ma senza calpestare i diritti dei lavoratori che sono prima di tutto persone. Tuttavia al di là del gesto concreto, questo è un segnale forte a livello morale. Non è pensabile che l’Italia pubblica rallenti quando il passo era già macchinoso - per non dire fermo - prima del covid. Non è pensabile che, una volta passata l’emergenza “rossa”, lo Stato insista nell’incentivare il lavoro da casa dei dipendenti i quali, appunto, finiscono per grattarsi la pancia sul divano.
Le conseguenze di questo atteggiamento sono enormi e sotto gli occhi di tutti. Pratiche che si prolungano o non arrivano mai generando perdite di tempo, ma soprattutto di soldi che oggi servono, più che mai e in fretta. Per sopravvivere, non solo per togliersi qualche sfizio. D’Urso è arrivato alla scelta stanco di sentirsi ripetere da due settimane che i moduli per i fondi europei non si possono caricare per assenza di personale, che le richieste contributi dei Comuni vanno rinviate a ferie concluse, che sono sospesi gli arretrati Ape, Paesc, Poc, Pac e così via lungo le ermetiche sigle di ogni pratica.
E le conseguenze aumentano se si scava solo un po’ di più: basti pensare a tutti quei ristoranti che stanno morendo sotto i colpi dello smart working che togli i lavoratori dagli uffici e quindi anche dai pranzi di lavoro. Eddai, pure Checco, funzionario nell'ufficio provinciale caccia e pesca di Bari alla fine cede e smette di inseguire il posto fisso.
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