Per un’informazione libera e corretta urge un controllo delle notizie sul web

02 gennaio 2017 | 10:43
Per l’Oxford Dictionaries la parola dell’anno 2016 è stata “post-truth” ovvero: post verità. Perché? Tre tappe importanti come la Brexit, le elezioni americane e il referendum costituzionale di casa nostra hanno dato risultati sorprendenti rispetto ai pronostici. E allora è scoppiata la polemica, politica ma non solo, secondo cui gli esiti sono stati tacitamente “pilotati” da un’informazione circolata sul web e sui social trascinata dalle “bufale”.

Il dibattito si mette sulla scia della battaglia che Italia a Tavola da diverso tempo porta avanti contro i commenti falsi e le recensioni fasulle che compaiono su siti come TripAdvisor. Per rafforzare questa tesi e ribadire che occorrono regole ferree per monitorare ciò che circola sul web, riportiamo integralmente l’opinione di Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust che ha scritto così sul Corriere della Sera di oggi, 2 gennaio.




Internet ha cambiato il modo in cui noi comunichiamo ponendo sfide formidabili alla libertà di informazione e al futuro della democrazia. Le Costituzioni e le leggi hanno posto regole sulla libertà di informazione che si sono atteggiate in modo diverso a seconda delle tecnologie impiegate per formare e diffondere l’informazione.
 
Nell’era di Internet ci sono almeno due innovazioni cruciali. La prima è l’affermazione di un sistema di produzione dell’informazione radicalmente decentralizzato. È sufficiente disporre di un computer, di un tablet o di uno smartphone ed essere connessi per diventare produttori di informazione. Da qui discende quella che un giurista americano definisce "la ricchezza delle Reti" che amplia la nostra sfera di libertà e rafforza la partecipazione democratica (Y. Benkler).

La seconda innovazione è che per rendere utilizzabile tale massa enorme di informazioni, diventa essenziale il ruolo dei soggetti capaci di ordinarla e facilitare il collegamento tra chi produce informazione e chi vuole riceverla. Sia pure con modalità molto diverse, questa funzione chiama in giuoco i motori di ricerca e i social media. Essi possono essere definiti i gatekeepers ("portieri") dell’informazione nel cyberspazio (formula coniata da E.B. Laydlaw), in quanto collegano produttori e fruitori dell’informazione e, con i loro algoritmi, danno ordine alle informazioni. La Rete è aperta ma solo pochi soggetti (come Google o Facebook) hanno le chiavi dei cancelli da cui passa l’informazione.
 
In questo quadro vanno collocate questioni spinose come quella sul trattamento delle fake news (le notizie false o "bufale"). Va sottolineato che esse non hanno niente a che vedere con le opinioni, ma sono delle vere e proprie bugie. In un sistema di informazione radicalmente decentralizzato aumentano notevolmente le possibilità che esse siano create e messe in Rete. In un sistema, poi, in cui esistono pochi gatekeepers dell’informazione, se una "bufala", per la logica dell’algoritmo con cui essi operano, viene rilanciata e posta in evidenza sullo schermo può raggiungere milioni di persone e apparire come fatto non controverso.



Anche se è assai difficile stabilire se le fake news abbiano influenzato recenti consultazioni popolari in varie parti del mondo (io non credo che, in Italia, abbiano condizionato l’esito del referendum costituzionale), è però arduo sostenere che la diffusione di notizie false sia un bene per la democrazia. In ogni caso le bugie in rete non sono un bene per la libertà di informazione, che ha sempre due volti. Da un lato, c’è il diritto di informare ma, dall’altro lato, c’è il diritto ad essere informati correttamente e a non essere ingannati.

Né pare possibile sfuggire a quest’ultima osservazione, facendo valere il fatto che chi naviga in rete può sempre confrontare un’informazione con un’altra per poi stabilire se una notizia sia vera o falsa, perché in questo modo si pone sul singolo individuo un onere di approfondimento enorme, e perché, nel mondo dei motori di ricerca e dei social media, la notizia falsa può essere collocata ai primi posti tra le news che appaiono sullo schermo apparendo come l’unica informazione rilevante.

A questo punto siamo di fronte a un bivio: ritenere che viviamo nel migliore dei mondi possibili e quindi lasciare Internet come uno spazio sostanzialmente senza regole, oppure estendere a Internet la logica dello Stato di diritto sottoponendolo a regole di garanzia delle nostre libertà. Si tratta di una ricerca difficile, che sembra oscillare tra due poli. Da una parte si può affidare alle grandi piattaforme il filtraggio delle informazioni che fanno passare dai loro «cancelli».

Quando si parla di modificare gli algoritmi usati da Facebook si segue questa strada, che è quella di una autoregolazione. Questo ruolo di filtraggio si accentuerà fortemente se dovesse introdursi il principio, recentemente proposto, secondo cui i social media dovrebbero essere responsabili per i contenuti che ospitano, visto che per evitare responsabilità il controllo diventerà più penetrante. Ma è possibile affidare ad una compagnia multinazionale il controllo dell’informazione sulla Rete (una sorta di censura privata)?

Dall’altra parte, come ho recentemente proposto (sul Financial Times del 30 dicembre), potrebbero introdursi istituzioni specializzate, terze e indipendenti che, sulla base di principi predefiniti, intervengano successivamente, su richiesta di parte e in tempi rapidi, per rimuovere dalla Rete quei contenuti che sono palesemente falsi o illegali o lesivi della dignità umana (non dimentichiamo il caso recente della ragazza napoletana che si è uccisa dopo la diffusione virale sulla rete di un suo video che doveva restare privato). Sono questioni complicate ed ogni soluzione non è priva di criticità, ma ciò invece di indurci a rimuovere i problemi deve spingerci ad approfondire le analisi e il dibattito, senza strumentalizzazioni legate alla politica contingente.

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Alberto Lupini


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