Inascoltate dal Governo, le catene del food rilanciano i progetti collettivi
A quasi un anno dalla sua fondazione, Ubri (Unione dei brand della ristorazione italiana) riparte dalle basi. Ferrieri (Cioccolatitaliani): «Non abbiamo avuto risposta, i problemi sono rimasti gli stessi» . E sul delivery: «Serve un nuovo modello di business, così è insostenibile; per i ristoranti e per le piattaforme»
14 aprile 2021 | 05:00
di Nicola Grolla
Soluzioni che Vicenzo Ferrieri, presidente di Ubri e ceo di Cioccolatitaliani, ha cercato di portare all’attenzione dl Governo, «senza fortuna: tutte le nostre richieste non hanno trovato riscontro». Più fortuna, invece, con l’aspetto associativo grazie alla «voglia di condividere informazioni importanti per il business. Ubri nasce come una community di imprenditori che lavorano in maniera sistemica per migliorare il settore e le aziende», ha risposto Ferrieri.
Dopo un anno di pandemia e chiusure, cosa resta in cassa?
Come media, a livello associativo, abbiamo avuto il 60-70% di perdita a fronte di ristori del 3-4%. Lascio agli altri giudicare se siano sufficienti o meno. Inoltre, alcuni dei brand associati non hanno potuto utilizzare alcun aiuto a causa del vincolo dei 10 milioni di fatturato, un limite che ha tagliato fuori le catene con tanti punti vendita e ribadito la tesi per cui siamo un Paese che incentiva il nanismo.
L’idea di abbattere le diffidenze e le ostilità per un progetto di sviluppo comune aveva rappresentato una novità nel panorama del foodservice. Siete riusciti a tenere fede a questa comunione di intenti in termini di aperture e progetti di espansione?
Siamo riusciti a fare tantissimi progetti sinergici a partire dal monitoraggio continuo del mercato immobiliare. Un risultato difficile da immaginare. Tanti brand dell’associazione si sono mossi su diverse location per prenderle insieme oppure hanno partecipato a sviluppi complementari, come quello del Lingotto di Torino dove 5 brand dell’associazione sono presenti insieme. Abbiamo poi esteso la collaborazione alla catena dei fornitori che ci ha permesso di razionalizzare i prezzi e risparmiare.
Siete riusciti a fare fronte comune anche sul tema dei canoni? Oppure le diverse proprietà vi hanno costretto a contrattazioni individuali?
Purtroppo, non siamo riusciti a dare una risposta unitaria. Anche se avevamo chiesto l’intervento del Governo per una soluzione nazionale. Oggi, i contatti di locazione sono gli asset principali delle aziende ma non è fatta alcuna norma nazionale per proteggerli. La gestione è avvenuta tra privati. Tanto che ora il rischio è che si ingolfino i tribunali per cause che riguardano il mancato pagamento oppure la mancata mitigazione del canone. Una storia che potrebbe andare per le lunghe. Diverso sarebbe stato il caso in cui fosse stata, per esempio, introdotta la cedolare secca sugli immobili commerciali affinché il proprietario potesse beneficiare di un’agevolazione da poi ribaltare anche sul canone da far pagare all’inquilino.
Il boom del delivery durante il lockdown ha consolidato il ruolo delle piattaforme di cibo a domicilio. Una situazione che, però, vi ha messi in difficoltà e vi ha portato allo scontro con alcuni player. Cosa c’è che non va in questo modello di business?
Detto sinteticamente, operiamo in un sistema non virtuoso. Per diversi motivi: dalle marginalità racimolate al contratto nazionale dei rider, passando per i profitti che le piattaforme fanno nel nostro mercato e le tasse pagate in un altro per finire ai costi di commissione richiesti ai ristoratori. C’è una situazione di precarietà del business che colpisce tutti; anche le piattaforme. Tutto questo perché il Governo non ci ha messo le mani.
Cosa bisognerebbe fare?
Va aperto un tavolo di confronto con tutte le parti in causa per capire come rendere efficiente a tutti i livelli questo modello di business. Noi non vogliamo che le piattaforme se ne vadano dal mercato. La loro uscita dopo le multe subite sulla questione dei rider sarebbe un ulteriore danno per noi ristoratori. Piuttosto, bisogna agevolare la transizione verso nuovo mondo.
E che confini dovrebbe avere?
Noi abbiamo proposto l’introduzione di un credito d’imposta sulle commissioni delivery oppure l’introduzione di un tetto sulle commissioni. Quest’ultima soluzione è già stata adottata in diversi mercati evoluti, quindi non sarebbe una novità assoluta. D’altronde, tanti ristoranti ormai hanno abbandonato la consegna a casa proprio perché alla fine dei conti non conviene. E questo, a catena, riduce di molto l’offerta. Parametro essenziale per le performance delle piattaforme. Insomma, non mi stupisco che i risultati del modello attuale siano i crolli in Borsa delle società del delivery e le rivolte dei ciclofattorini per strada.
E un delivery proprietario? Magari diffuso fra i membri di Ubri?
Purtroppo non abbiamo la forza per strutturare un delivery competitivo. Le piattaforme hanno risorse illimitate sia dal punto vista degli investimenti marketing a livello globale, sia sul fronte tecnologico. Nonostante ciò, comunque, alcuni dei nostri brand hanno attivato un servizio di consegna diretta, ma a causa della tassazione a cui è sottoposto non risulta remunerativo.
Nel frattempo, si avvicina - forse - la data di riapertura dei locali. E gli italiani hanno profondamente cambiato le proprie abitudini di consumo. Cosa significa questo in termini di proposta sia digitale che fisica?
Stiamo ripensando i nostri layout. Il delivery stesso lo richiede. I punti vendita del passato non sono pensati per ricevere anche il flusso di rider che con zaini e bici rischia di intasare l’entrata e confondersi con il cliente. Un disservizio che impatta fortemente sull’esperienza in store. In generale, comunque, saranno rivisti tutti i processi che coinvolgono il consumatore: dal pre-ordine al pagamento cashless, passando per il mantenimento dei protocolli di sicurezza anche quando il loro obbligo decadrà. Alla fine dell’emergenza sanitaria, non si tornerà alla normalità del 2019.
Anche dal punto di vista occupazionale?
Su questo fronte, siamo pronti a ripartire. D’altronde, il grande e unico ammortizzatore sociale che ha funzionato è stata la cassa integrazione. La forza lavoro c’è è lì, stanca ma attende di lavorare. Non c’è stata una fuga verso altri settori; anche perché le nostre competenze sono ben specifiche.
A livello di liquidità come è messo il foodservice? Ci dovremo attendere un futuro costellato da acquisizioni e fusioni? Oppure a una fuga all’estero dei brand?
A livello di liquidità, il settore è devastato. Bloccando gli incassi ma con costi fissi che continuano a correre, anche un locale spento genera delle spese. Questo comporterà rallentamento dello sviluppo dei grandi gruppi, ossia l’impossibilità aprire nuovi punti vendita. Un fenomeno che spingerà il settore ad aggregarsi.
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Alberto Lupini