Enoturismo, chiudere col passato Si fa business vendendo esperienze

Mentre a Reims il vino è l’ambassador turistico dell’estate 2020, in Italia il settore si dibatte tra auto referenzialità, modelli anni ‘90 e percezione “low cost” . Osare progetti d’insieme valorizzerebbe tante province italiane che magari non avranno mare, laghi o Dolomiti ma che potrebbero dire la loro con la qualità nel calice

02 agosto 2020 | 08:30
di Emanuele Bottiroli
L’enoturismo in Italia ha sempre meno bisogno d’improvvisazione e sempre più bisogno di essere percepito e sviluppato come un modello di business. Non può più essere la scelta estemporanea di qualche weekend all’anno: servono consapevolezze, competenze, risorse, un buon marketing, un palinsesto stagionale/annuale e personale formato per l’accoglienza in cantina.


Bisogna disancorarsi dai vecchi modelli per offrire qualcosa che racconti una storia, un'esperienza

Di enoturismo e digitalizzazione delle imprese vitivinicole e agroalimentari, dal lockdown a oggi, parlano praticamente tutti: dalle associazioni di categoria alle istituzioni, come se fosse finalmente suonata la sveglia, come se finalmente si percepisse che c’è un vantaggio competitivo da recuperare avendo, tra grandi vini e tipicità identitarie, un mosaico unico al mondo e fortemente spendibile per creare economia e indotto; i territori agricoli italiani possono elaborare format irripetibili capaci di dare risultati sia attraverso il turismo di prossimità che tramite la leva di quello internazionale nel breve-medio periodo. A valle della legge nazionale sull’enoturismo varata dall’ex ministro alle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio, molte regioni non sono ancora intervenute con le necessarie norme attuative, il che rende ancora in qualche caso problematica l’attività d’impresa attorno al pianeta accoglienza in cantina o in azienda agricola.



La vera questione resta poi il tema della proposta e del posizionamento delle esperienze. È evidente a tutti come associazioni nate negli anni ’90 e che allora diedero un segnale forte, quando fare enoturismo sembrava voler dire essere gli “originali” con tanto tempo da perdere, abbiano fatto il loro tempo. Oggi non serve più un modello tra qualche marchio e una gestione tra volontariato e pro loco. Oggi bisogna che il settore si convinca di come necessiti andare oltre, completare una metamorfosi, vivere un’evoluzione, puntare verso modelli che ambiscano a una federazione regionale di consorzi dell’enoturismo, capaci di reclutare professionisti, competenze e di dare servizi moderni al mondo dell’impresa.

L’esperienza maturata da soggetti antichi e da aziende che in questi anni hanno elaborato piattaforme e modelli di business innovativi e ambiziosi per proiettare il settore nel futuro andrebbe messa a fattore comune. Quello che nessuno dice, tuttavia, è che da progetti stimolanti e sfidanti negli anni ’90 si è passati in qualche caso a sodalizi chiusi, auto-referenziali, ogni tanto politicizzati, in cui le gerarchie fanno da barriera allo sviluppo di idee innovative che spesso, non comprese appieno o non accettate per ragioni di correnti o di scuderia, non attecchiscono. Per l’Italia dell’enoturismo è troppo poco, oggi, chiudersi nella “comfort zone” di qualche vecchia idea e basta. Bisogna andare oltre, bisogna crescere.


Servono formazione, studio e pianificazione

Per farlo c’è anche d’avere il coraggio di dire che l’Italia - non sempre ma il più delle volte sì - punta ancora su modelli di accoglienza e su pacchetti troppo banali con posizionamento economico rasoterra che non aiutano a dare valore al turismo del vino e del gusto come ramo d’impresa. Basti guardare i prezzi e i programmi di alcuni pacchetti che vengono proposti in Italia all’universo dei winelovers: a 10-15 euro, costo inferiore a quello di una pizza, tutto si appiattisce e non esiste né la possibilità di fare brand né quella di elaborare proposte che emozionino e lascino il segno. Servono formazione, studio e pianificazione.

Non è un caso se in Champagne è raro trovare pacchetti enoturistici da meno di 60 euro per persona, perché in Francia hanno da sempre capito che non conta “fare” ma conta “far bene”, ovvero non vendere vino ma esperienze, storia, cultura e identità attraverso modelli di accoglienza capaci d’imprimersi per lungo tempo nell’immaginario dell’ospite. In Italia, troppe volte, s’intende ancora l’enoturismo come una proposta a basso costo per qualche weekend pensato last minute, per attirare il winelover in cantina e vendere qualche cassa di vino, magari “in promozione”. Tutto sbagliato. L’accoglienza in cantina dev’essere funzionale al racconto della propria storia, del proprio sacrificio e del proprio territorio con le sue unicità; l’emozione che ne deve derivare, dedicando attenzione ai particolari e ai programmi proposti agli enonauti, dev’essere funzionale a vendere il proprio vino a valore per essere nelle condizioni di continuare a investire sulla qualità e sull’immagine della propria zona di produzione e del proprio marchio.


Il vino è ambasciatore del territorio

Ci sono poi strategie in Europa sulle quali le amministrazioni locali italiane dovrebbero interrogarsi e mettersi in movimento con programmazioni dedicate: il vino è un ambasciatore delle territorialità. Non è un caso se dal Nord Est della Francia arriva la notizia che il Comune di Reims ha deciso di fare del vino una potente leva di attrazione turistica: dal 15 luglio 2020 l’Ufficio Turistico del capoluogo della Champagne ha scelto di regalare 3mila bottiglie ai vacanzieri che soggiornano nella regione. Per usufruire della premialità i turisti devono trascorrere almeno due notti consecutive nella città di Reims o nella zona circostante e soggiornare in un hotel o in una pensione; durante il viaggio i visitatori devono mangiare in un ristorante locale e ordinare almeno un piatto e da bere; infine i turisti devono dimostrare di aver pagato per un’attività di svago, come una visita in cantina, un noleggio di biciclette o un biglietto del cinema. All’iniziativa, che i vignaioli hanno finanziato con il vino (per un investimento stimato in 50mila euro), partecipano 68 produttori, per un totale di 3mila bottiglie in palio. È una risposta vera, concreta e imprenditoriale al post lockdown in un anno in cui necessita motivare ancor di più il pubblico interno ed internazionale a scegliere un tipo di vacanza tra ambiente, paesaggio, cultura e gusto.

Dispiace constatare che una proposta del genere in Italia sia quasi fantascienza, perché il Paese è troppo ancorato a modelli passati. Osare progetti d’insieme, al contrario, valorizzerebbe tante province italiane che magari non avranno mare, laghi o Dolomiti ma che potrebbero dire la loro con la qualità nel calice e il fascino delle loro campagne incontaminate con tante storie da raccontare.

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Alberto Lupini


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