Come stanno veramente i ristoranti e i bar in Italia? Male, almeno secondo i dati: nel periodo che va tra il terzo trimestre 2021 e il terzo trimestre 2022 si è registrata, infatti, un’accelerazione delle cessazioni di attività: 17.804 unità in meno in un solo anno, come riporta il Corriere della Sera. Ma non solo, la velocità di discesa risulta crescente nel tempo, visto che il saldo negativo del terzo trimestre 2022 è stato di 3.777 unità, mentre quello dello stesso periodo dell’anno precedente era limitato a 1.963 casi. E questo nonostante la brillante estate 2022 che, archiviato il Covid, ha visto dehors pieni e tanti sold out. Ma le belle speranze di ripresa sono state presto affondante in autunno, tra bollette alle stelle e rincari delle materie prime. Sono dunque queste le cause? Non solo! Ma andiamo con ordine e mettiamo subito sul piatto della bilancia, e nero su bianco, le cause che in questi ultimi mesi stanno contribuendo più di tutte alle chiusure di ristoranti e bar italiani:
- Covid e post Covid
- Caro bollette e costi energetici
- Caro materie prime
- Mancanza di manodopera
- Il fuoco amico dei take away e degli street food
1 – Con il Covid saltate le nuove aperture e con scarsa liquidità
Ma andiamo con ordine, come ben sappiamo e ampiamente documentato da Italia a Tavola in questi ultimi anni, il Covid si è abbattuto catastroficamente sul comparto della ristorazione e del turismo in generale. Subito sono saltati i ristoranti e i bar che operavano con scarsa liquidità, così come i ristoratori che avevano appena aperto (negli anni 2017 e 2018).
2 – Schiacciati da caro bollette e materie prime
Nel post Covid, con la voglia degli italiani di ricominciare a uscire e sedersi ai tavoli di bar e ristoranti, la ripresa si è innescata, ma, come dicevamo, dopo la bella estate 2022, i ristoranti e i bar italiani sono stati immediatamente travolti dall’aumento dei costi delle materie prime e della bolletta energetica. Per far fronte alla situazione, subito i ristoranti hanno compresso i margini e poi hanno aumentato i prezzi (+74% novembre '22 su novembre '21), perdendo però, in questa doppia manovra, più di quattro punti sull’inflazione media.
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3 – Molti chiudono per mancanza di personale
Come se non bastasse, al caro prezzi, si sono aggiunti, come Italia a Tavola denuncia da tempo, i problemi legati alla manodopera. Trovare camerieri di sala, baristi e aiuto cuochi è diventato quasi impossibile per un ristorante. E i dati sono allarmanti: il 56% delle imprese denuncia di aver avuto difficoltà a reperire personale e in più di qualche caso è stata quella la motivazione finale della decisione di chiudere l’attività. Un problema non più attribuibile al reddito di cittadinanza o a fattori contingenti, ma diventato, ahimè, strutturale. I motivi sono tra i più disparati, a partire dai giovani poco disposti a lavorare il sabato e/o la domenica. Ma, oltre a quella del personale, il Covid ha cambiato profondamente anche la mentalità dei titolari e ora sono tanti che, ad esempio, non vogliono più tenere aperto il ristorante 7 giorni su 7, ma che ricercano una vita “più sostenibile”. Una questione sulla quale da sempre anche Italia a Tavola si batte per portare il comparto a un radicale cambio di passo perché lavorare nei ristoranti e nei bar non deve più essere sinonimo di stress.
4 – La concorrenza sleale dei take away corsari
Siamo di fronte, dunque, come ha spiegato Roberto Calugi, direttore generale di Fipe Confcommercio a «più tendenze che finiscono per sommarsi. La ridefinizione economico-culturale della professione del ristoratore, l’indebolimento di quella funzione di presidio sociale e di sicurezza che sedie e tavolini assicurano al contesto urbano e raffermarsi di un modello di business corsaro che garantisce più marginalità rispetto al modello tradizionale. La somma che ne viene non è incoraggiante». Business corsaro? Si tratta, appunto del fuoco amico dei take away e degli street food. Nello specifico, non loro, ma l’assenza di una legge di regolamentazione del comparto in linea con i tempi. L’ultima è del 1991! Ma dall’ora a oggi sono cambiati, anche profondamente, gli stili di vita e di consumo e i modelli delle imprese. E se una volta l’attività di ristoranti e bar era rigidamente divisa, ora si è ibridata e sono comunque aumentati enormemente i soggetti che fanno e vendono da mangiare.
«Per 30 anni siamo andati avanti solo per emendamenti alla legge, ma ormai il quadro non tiene più, è venuta meno una visione organica del settore nel momento in cui la domanda sociale saliva in quantità e allo stesso tempo cambiava in qualità – spiega sostiene Calugi - Ormai il modello di business che si impone è quello del mordi e fuggi. Basta aprire uno sportello in una strada dei nostri centri storici e si può vendere cibo senza avere una sala e dei bagni, con minori costi di locazione e una ridotta tassa dei rifiuti e senza assumere del personale. Il take away non è più solo un completamento d’offerta, ma a volte un veicolo di concorrenza non sempre leale che scarica sulla collettività i costi d’impresa. I rifiuti vengono rilasciati per strada, aumentano l’insicurezza e la mala movida, si abbassa la qualità del servizio e del prodotto e con essi l'attrattività dei nostri centri storici». Take away che, secondo i dati, in alcuni centri storici cresce del 70% l’anno.
Un bel problema dunque. Ma come fermare il proliferare di di raviolerie, pokè, kebab, friggitorie? Non di certo ripristinando le vecchie licenze contro la liberalizzazione, che anche per la Fipe sono anacronistiche, ma chiedendo al Governo regole uguali per tutti e investimenti in formazioni e competenze.
Serve l’aiuto del Governo
E proprio il Governo ora deve spingere l’acceleratore nel sostenere uno dei principali comparti dell’economia italiana, così come ad esempio aveva fatto con la moltiplicazione dei dehors durante il Covid. Perché alla lunga, lo abbiamo visto, il Covid ha penalizzato, paralizzandoli nel mentre, i ristoranti, ma non ha certo penalizzato il cibo. Tutt’altro! A conferma che si sente la mancanza insopportabile delle cose quando non le si hanno. Conferma data anche dal proliferare di take away e street food “corsari” che insieme delle piattaforme d’intermediazione commerciale come TheFork che hanno aumentato a dismisura le loro commissioni, possono esser la goccia che fa traboccare il vaso. E non possiamo permettercelo visto che stiamo parlando di un comparto che genera 77,4 miliardi di fatturato contro gli 85,5 del 2019 a prezzi correnti.
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Alberto Lupini
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