Sono sempre più le vetrine dei ristoranti di tutta Italia che espongono il cartello “Si cerca personale”. Una situazione che è andata crescendo dopo la pandemia e che sembra in contraddizione con due fattori: l’occupazione nei pubblici esercizi è tornata ad essere quella del pre-Covid, mentre sono in calo il numero delle imprese e, soprattutto, la capacità di spesa degli italiani. Il risultato è che mancano cuochi e camerieri, non solo nei centri turistici dove si registra un aumento della domanda per la presenza degli stranieri.
Il dilemma dell'attrazione e della permanenza nel settore
La realtà è quella che andiamo descrivendo ormai da tempo: mentre aumenta la domanda nel fuori casa, c’è sempre meno gente interessata a lavorare in bar e ristoranti. Sarà per i profondi cambiamenti nelle aspettative delle persone dopo il Covid (si cerca più tempo libero e soddisfazioni extralavorative). Oppure perché a volte le remunerazioni dei dipendenti sono troppo basse a fronte di turni pesanti; o ancora per aver compreso come fossero false l’idealizzazione della cucina da parte di troppe trasmissioni televisive o le fantasiose recensioni marchettare di troppi ignoranti di cosa sta realmente dietro ad un servizio di ristorazione. Sta di fatto che soprattutto fra i giovani non è mai stata così bassa la scelta di lavorare in un pubblico esercizio. Tendenza confermato dal crollo delle iscrizioni alle scuole alberghiere, peraltro positivo se frutto di scelte più convinte.
Lo stress ha portato molti giovani chef ad abbandonare il settore
La dura realtà del lavoro in cucina
La realtà è che, pur a fronte di molte soddisfazioni, lavorare in un mondo di prelibatezze, studio della materia prima, presentazioni del piatto e relativi servizi è impegnativo e la spettacolarizzazione fatta negli ultimi anni ha ceduto il passo alla consapevolezza che si tratta di un lavoro molto più duro di quanto si è fatto vedere in tv. E non sono pochi i cuochi che lo segnalano. Ultimo caso quello di Philippe Léveillé che su Facebook ha commentato, con la delusione quasi di un padre, l’abbandono della sua brigata da parte di un giovane apprendista che probabilmente non aveva compreso quanto impegno e sacrificio richieda lavorare in cucina.
Quella dello chef è diventata in realtà una delle professioni più complesse e stressanti che esistano. Questo non è più un segreto e non lo era già prima del Covid. Orari a volte impossibili, così come lo sono i carichi di lavoro e le responsabilità, ben maggiori rispetto a quelle che riguardano qualsiasi altra attività commerciale. Per chi ha ambizioni, il lavoro diventa una sorta di missione, o l’unico hobby, e questo può fare perdere di vista amici o relazioni. Soprattutto per un giovane può essere difficile pensare di essere a lavorare mentre i suoi coetanei sono a divertirsi, ad un aperitivo, al cinema o a ballare. Il cuoco o il cameriere lavora mentre gli altri sono in vacanza…
Lo stress e le ambizioni nel settore culinario
C’è poi lo stress di chi rincorre obiettivi ambiziosi: la stella Michelin o un ristorante proprio sono i traguardi che condizionano la vita a molti giovani. Non dimentichiamo che il lavoro dello chef da tempo è studiato dalla scienza psichiatrica per capire come sia possibile affrontare una routine così complessa. Al punto che la Federazione italiana cuochi (Fic) ha da anni commissionato ricerche dalle quali risulterebbe che in cucina si sviluppano “super-attività” che non sempre il cervello può gestire al meglio creando ansie. Un po’ come avviene a molti musicisti: il cervello di chi lavora in cucina ha in genere la zona dell’apprendimento più grande di tre volte rispetto a quello di una persona normale.
Già nel 2019 la Fic ricordava come ci sono due tipi di stress: uno adattivo, che riguarda la sfera di attività frenetiche, ma gestibili potenzialmente; e maladattivo, che invece è quello che porta a problemi organici, a malattie, perché si spinge il corpo e la mente oltre le proprie capacità. Secondo una ricerca di Stanford, questo tipo di stress maladattivo porta all’allontanamento dalla famiglia, a mancanza di sicurezza e al non avere controllo del proprio lavoro. Da qui la richiesta di riconoscere il lavoro in cucina come usurante.
Le conseguenze negative e le sfide
E in questo contesto non si devono dimenticare alcune delle conseguenze più negative di un malessere esistenziale. È il caso dell’abbandono del lavoro (pensiamo all’ex ristoratore di Bardolino che si è dedicato al recupero ambientale) o ai tanti che dopo la pandemia hanno preferito lasciare i ristoranti per lavorare nei supermercati o come magazzinieri per avere orari e turni diversi.
All’estremo ci sono anche i casi di suicidio, come quelli di 5 anni fa di uno chef fra i più noti, Luciano Zazzeri, o l’anno prima di Anthony Bourdain. E ancora prima di Franco Colombani e Sauro Brunicardi, solo per citarne alcuni.
Il legame tra stress e uso di droghe
Non si può poi non parlare di come allo stress sia collegato il possibile uso di droghe fra chi lavora nella ristorazione. Già 4 anni fa avevamo segnalato come una ricerca di RestWorld evidenziasse un consumo di cocaina superiore alla media di altri settori. Una situazione che aveva per tempo denunciato anche lo chef Gordon Ramsey nel documentario “Cocaine”, parlando apertamente dello smodato utilizzo di cocaina nell’industria della ristorazione, definendolo “piccolo sporco segreto dell'industria dell'ospitalità”.
Durante il Covid19 l'uso di sostanze stupefacenti è fortemente aumentato nel settore della ristorazione
Una realtà che durante la pandemia, per i timori generali, sempre per RestWorld sarebbe peggiorata, tanto che l'utilizzo di cocaina si era diffuso tra personale di cucina (36%), operatori di sala (35,3%) e reparto bar (28%). Si sarebbero drogati l'84,5% dei lavoratori del settore tra i 25 e i 39 anni. Soprattutto maschi.
Prospettive di miglioramento e soluzioni
La situazione oggi non dovrebbe essere più così tragica. In molti locali sono cambiati i ritmi di lavoro e in tanti altri, forse più di quello che ci si aspetta, i collaboratori sono gli stessi da anni, a conferma che nella ristorazione si può e si deve vivere meglio rispetto alle punte negative che abbiamo evidenziato. L’importante è avere la consapevolezza che per fare stare bene i clienti (che è poi la mission di chi lavora nei pubblici esercizi o in un hotel) bisogna stare bene, e quindi lavorare bene.
Nuovi orari, turni differenziati, più giorni di riposo sono le condizioni per vivere al meglio una professione che può esser entusiasmante anche se non si raggiunge la notorietà di Carlo Cracco o di Massimo Bottura. L’importante è non affrontare il lavoro come se fosse un rimedio o, peggio, un continuo esame per aggiungere chissà quali mete. Il sorriso è ciò che dovrebbe distinguere chi sta in sala o in cucina, perché è quello, prima ancora che la bontà del piatto o la qualità del servizio, che genera un sorriso nei commensali. Stare bene per fare stare bene gli altri, questa è la vera sfida che va ben oltre l’obiettivo di una stella a cui non si può sacrificare tutto.
Lavorare felici per un successo duraturo
Anche perché solo così si può sfuggire da quella sorta di anatema che provocatoriamente Leonardo Lucarelli aveva lanciato nel 2016 col libro “Carne Trita, l'educazione di un cuoco” definendo come tutti “tossici, alcolisti, puttanieri e artisti” gli che. In verità alcuni, pochi, possono anche essere così, ma in fondo basta meno di quello che ci si immagina per vivere un po’ meglio. E gli esempi ci sono e Italia a Tavola vi racconterà alcuni dei casi positivi in cui si lavorava e si vive bene “anche” in un ristorante. A partire magari dal prevedere spazi di tempo libero adeguati, tanto che la Federazione cuochi già da 2 anni chiede di avere 3 giorni di riposo la settimana. Magari ne basterebbero anche solo 2, ma reali, e con orari che non costringano a stare magari 15 ore in piedi.