La pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere, abitare, comprare e mangiare. Con il lockdown del marzo 2020 è iniziato un processo accelerato di revisione di tutte le nostra abitudini che, da un lato, ha fatto scoprire a molti italiani il valore e il potenziale del digitale; dalla'altro, ha messo in difficoltà il mondo fisico. A partire dall'immobiliare. Serrande abbassate o semi-aperte, uffici deserti e lavoro da remoto, centri storici spogli di turisti e locali. Risultato? Il settore si sta avvicinando al crack che, come sempre, rappresenta un momento di fallimento per alcuni e di successo per altri.
Immobiliare vicino al crack: rischio o opportunità?
Per tenere la bussola a dritta, abbiamo intervistato Luigi Donato, classe '55, capo del Dipartimento immobili e appalti di Banca d'Italia e autore del report Il mercato immobiliare tra emergenza Covid-19 e smart working.
La pandemia ha colpito duramente il comparto immobiliare. Quali i macro-effetti?
Gli effetti nell’immediato sono stati due: il blocco dei cantieri e quello degli appalti. Nel primo caso, si è trattato di un fenomeno che ha avuto strascichi anche dopo la riapertura dei cantieri, che si sono dovuti riorganizzare in base ai nuovi protocolli per garantire le sicurezze necessarie ai lavoratori. Nel secondo caso, siamo di fronte alle conseguenze di un provvedimento normativo che di fatto ha tagliato le capacità del procurement pubblico.
Quali aree hanno pagato maggiormente questo stallo?
L’impatto più consistente è stato sulle città, da due punti di vista: il rapporto tra assetto urbanistico e vita sociale da un lato, e quello con il mondo del lavoro dall’altro. Nel primo caso, questo è evidente se consideriamo anche il contemporaneo blocco del turismo, dei locali e dell’hospitality. Nel secondo caso, dobbiamo tenere presente la riduzione del pendolarismo dovuto allo smart working. Il risultato è stato che le grandi città si sono svuotate. Non solo in Italia, dove le prime 15 maggiori città hanno registrato un calo dei residenti, ma in tutta Europa. Molte persone si sono spostate verso la seconda casa. Un trend che nella prima fase della pandemia era associabile a un ritorno al luogo di origine ma che, successivamente, si è trasformato nel desiderio di abitare in situazioni, in contesti diversi. Non si cerca più una posizione in direzione del centro storico dove si concentrano le maggiori opportunità di lavoro e svago, piuttosto si preferiscono sistemazioni più periferiche, aperte ma non per questo meno vivibili.
Parlando di immobiliare commerciale, chi sta perdendo di più, attualmente, fra landlord (proprietari) e tenant (affittuari)?
Sicuramente tutti e due stanno perdendo la partita. Se, in passato, si poteva trovarli su posizioni diverse, ora landlord e tenant giocano nella stessa squadra. Le piccole e medie aziende, infatti, sono andate in difficoltà e non sono riuscite a reggere l’onda negativa usando i vari bonus e ristori. Mentre le vacancy generate hanno rappresentato un danno molto forte per proprietari.
Luigi Donato
Cosa ci si può aspettare, quindi?
Quello che bisogna immaginare è una situazione lunga nel tempo ma allo stesso tempo contingente. Dopo la crisi, il settore commerciale vivrà un rimbalzo positivo. Insomma, si può discutere sui tempi e l’intensità ma non sull’eventualità della ripresa. Centrale è che su questa fase corrisponda anche a una riorganizzazione complessiva del mercato immobiliare, sia lato domanda che lato offerta. Prendiamo un ristorante, per esempio, se volessi aprirlo oggi dovrei considerare non solo la sala e la cucina ma anche la possibilità o meno di poter sfruttare un dehors esterno oppure la presenza di porte automatiche di ingresso e uscita. Richieste di cui i proprietari e i costruttori devono tenere conto nel momento in cui mettono un immobile sul mercato.
Il tema canoni d’affitto ha caratterizzato tutto il 2020. C’è margine per un nuovo tipo di contrattazione che tenga conto dell’andamento economico e finanziario dell’impresa?
Nell’immediato la soluzione alle tensioni delle spese fisse si è cercato di risolverlo a livello privato con una diminuzione, rinvio o allungamento del canone. Lo abbiamo fatto anche noi di Banca d’Italia. Ma in prospettiva più lunga, lo sbocco a cui giungere è quello di un canone che sia un mix tra parte fissa e parte progressiva in base al fatturato. In questo modo, ci sarebbe una maggiore condivisone dei rischi di impresa che rafforzerebbe il contratto stesso lasciando comunque una certa dose di flessibilità alla gestione. L’ipotesi di stipulare contratti simili non è poi così remota. In campo alberghiero internazionale già succede.
Nel frattempo, come possiamo considerare il fisiologico aumento della vacancy? Una ferita profonda o un naturale processo di selezione?
La pandemia fa selezione da tanti punti di vista: qualità della proposta, livelli di igiene, sicurezza per la salute, ecc. È indubbio che ci sia bisogno di un salto di qualità. Sarà lo stesso ragionamento dei clienti a determinare una selezione del mercato verso strutture più affidabili a discapito di quelle meno organizzate.
Come sta procedendo il piano di dismissioni di Bankitalia?
Le nostre dismissioni rientrano in una nicchia di mercato molto precisa: la vendita di grandi palazzi dislocati nei capoluoghi di provincia. Si tratta delle ex sedi dell’istituto lasciate libere dopo la decisione di accorpare le proprie strutture a livello regionale. Per questo, negli ultimi anni, abbiamo gestito un pacchetto consistente di oltre 100 immobili da dismettere. E la circostanza per cui gli immobili in nostro possesso siano di particolare pregio ha fatto sì che il piano di dismissioni 2020 continuasse come il 2019. Abbiamo già venduto oltre la metà degli asset.
Chi sono gli acquirenti?
Essenzialmente privati che investono per matchare la domanda di qualità nell’ambito residenziale. Gli imprenditori locali hanno investito con idea di trovarsi pronti quando il mercato riprenderà, accelerando le transazioni.
A livello residenziale, la pandemia ha fatto emergere nuovi bisogni: più spazi, giardini, terrazza, ecc. Come influirà questo sullo sviluppo delle città e del retail?
Da un lato, gli esercizi commerciali “marginali” avranno meno chance mentre i centri storici resteranno poli di attrazione sia per le abitudini degli italiani, che sono legati al proprio territorio, sia per la ripartenza del turismo. I negozi di quartiere e vicinato riusciranno a mantenere le posizioni conquistate grazie a un forte legame con le nuove aspettative residenziali delle famiglie; quindi, vi sarà più spazio per locali più piccoli e specializzati. Poi c’è il fenomeno eCommerce che, guardando all’immobiliare avrà bisogno di una logistica di prossimità con centri di smistamento a ridosso della distribuzione. Questo potrebbe consentire un recupero di zone industriali dismesse.