L'export alimentare italiano fa passi da gigante e, a pochi giorni dalla fiera parmense di Cibus (9-12 maggio) tira le somme, per prepararsi a quelle manovre necessarie per raggiungere i 50 miliardi di fatturato in esportazioni entro il 2020. Le imprese italiane in generale stanno entrando ormai in quest'ottica: ad assicurarlo è Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare. «Non è vero - afferma Scordamaglia - che le nostre aziende trovano difficoltà a sbarcare nei mercati lontani. Gli Stati Uniti sono il nostro secondo mercato e in Cina siamo cresciuti a doppia cifra. Semplicemente ora ci stiamo organizzando per coprire l'ultimo miglio nella logistica. Come? Sulle piattaforme delle grandi imprese possono salire anche le medie e piccole. E dove questo non è possibile, ci sono le soluzioni offerte dall'Ice e dal programma di promozione del Made in Italy».
L'anno passato l'export ha superato un altro step nella crescita internazionale, sfiorando i 29 miliardi di euro, con una crescita del 6,7% rispetto al 2014. Grande merito va al vino, primo prodotto nelle esportazioni dell'agroalimentare italiano: con un +4,7% sale a 5,7 miliardi di euro il compenso ottenuto dalle esportazioni delle etichette italiane, merito soprattutto del Prosecco. È vero anche che a inizio 2016 l'export è in rallentamento, ma Scordamaglia spiega: «Le prospettive sono buone. Da parte nostra chiediamo al governo di continuare a supportare l'agroalimentare». E aggiunge poi: «Riprenderemo il tema del marchio made in Italy da apporre su tutte le produzioni realizzate nel nostro Paese».
Un ottimismo che procede a vele spiegate verso quei tanto ambiti 50 miliardi di introiti finanziari da raggiungere entro il 2020 con l'esportazione dell'agroalimentare nel mondo. Gli effetti ricadrebbero anche sul settore occupazione, creando posti di lavoro per 100mila unità. Così facendo si ridurrebbe inoltre quel divario che ci distanzia da coloro che dall'export traggono rispettivamente 71,1 e 60,5 miliardi l'anno: Germania e Francia.
«L'obiettivo è raggiungibile - dice Cesare Ponti, presidente dell'omonima società modenese - e senza “tradire” le produzioni di nicchia e di qualità del Made in Italy. Piuttosto l'Italia dovrebbe pensare di apporre sui nostri prodotti un logo che li identifichi. Inoltre andrebbe incentivato il turismo enogastronomico, una leva formidabile per promuovere le nostre produzioni». Una parentesi anche sui prezzi, certamente elevati, ma che secondo Scordamaglia non sono un ostacolo: «Il Made in Italy - conclude il presidente di Federalimentare - deve continuare a costare di più. Se un prodotto trasformato dalla Germania vale due, quello italiano deve valere dieci».