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Latte, allevatori sottopagati in perdita Nel 2015 chiuse oltre mille stalle

Nel passaggio dalla stalla allo scaffale i prezzi del latte fresco moltiplicano fino a quattro volte, con i centesimi riconosciuti agli allevatori che si trasformano in euro pagati dai consumatori. L’industria ha deciso di tagliare i compensi per il latte alla stalla di oltre il 20% rispetto allo scorso anno

10 novembre 2015 | 10:48
Latte, allevatori sottopagati in perdita 
Nel 2015 chiuse oltre mille stalle
Latte, allevatori sottopagati in perdita 
Nel 2015 chiuse oltre mille stalle

Latte, allevatori sottopagati in perdita Nel 2015 chiuse oltre mille stalle

Nel passaggio dalla stalla allo scaffale i prezzi del latte fresco moltiplicano fino a quattro volte, con i centesimi riconosciuti agli allevatori che si trasformano in euro pagati dai consumatori. L’industria ha deciso di tagliare i compensi per il latte alla stalla di oltre il 20% rispetto allo scorso anno

10 novembre 2015 | 10:48
 

Gli allevatori italiani hanno perso in un anno oltre 550 milioni di euro perché il latte viene pagato al di sotto dei costi di produzione, con una riduzione dei compensi di oltre il 20% rispetto allo scorso anno su valori inferiori a quelli di venti anni fa mentre al consumo i prezzi non calano. È quanto emerge dal dossier presentato dalla Coldiretti “la guerra del latte” che si è estesa con decine di migliaia di allevatori dalle industrie ai supermercati delle grandi città da Roma a Torino, da Bologna a Venezia, da Bari a Milano, dove sono state portate anche le mucche a rischio di estinzione perché gli allevatori non riescono più a mantenerle.


 
Nel passaggio dalla stalla allo scaffale i prezzi moltiplicano fino a quattro volte per il latte fresco con i centesimi riconosciuti agli allevatori che si trasformano in euro pagati dai consumatori. L’industria ha deciso unilateralmente di tagliare i compensi per il latte alla stalla di oltre il 20% rispetto allo scorso anno, proponendo accordi capestro che fanno riferimento all'indice medio nazionale della Germania, con una manovra speculativa ingiustificata e quindi inaccettabile. Siamo di fronte, infatti, a una palese violazione delle norme poiché il prezzo corrisposto agli allevatori è inferiore in media di almeno 5 centesimi rispetto ai costi di produzione, che variano dai 38 ai 41 centesimi al litro secondo l’analisi ufficiale effettuata dall’Ismea in attuazione della legge 91 del luglio 2015 che impone che il prezzo del latte alla stalla debba commisurarsi ai costi medi di produzione.
 
Lo studio ufficiale sui costi di produzione del latte bovino elaborato in esecuzione della legge 91 del luglio 2015 evidenzia che nel giugno 2015 in Lombardia i costi medi di produzione del latte oscillano da un minimo di 38 centesimi al litro per aziende grandissime di oltre 200 capi di pianura, a prevalente manodopera salariata, con destinazione a formaggi Dop, fino ad un massimo di 60 centesimi al litro per aziende piccole di 20-50 capi di montagna/collina, a prevalente manodopera familiare, con destinazione del latte a formaggi Dop. Il risultato è che nel 2015 hanno chiuso circa mille stalle, oltre il 60% delle quali si trovava in montagna, con effetti irreversibili sull’occupazione, sull’economia, sull’ambiente e sulla qualità dei prodotti. E quelle che sono sopravvissute, circa 35mila, non possono continuare a lavorare in perdita a lungo.

«A rischio c’è un settore che rappresenta la voce più importante dell’agroalimentare italiano con un valore di 28 miliardi di euro con quasi 180 mila gli occupati nell’intera filiera - ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che - in gioco c’è un patrimonio del Made in Italy alimentare che ha garantito all’Italia primati a livello internazionale ma anche un ambiente ed un territorio unico che senza l’allevamento rischia l’abbandono e il degrado».
 
Il settore lattiero caseario, secondo l’analisi della Coldiretti, rappresenta la voce più importante dell’agroalimentare italiano, con 35mila imprese di allevamento, oltre la metà delle quali (55%) si trova in zone montane o svantaggiate, per una produzione complessiva di latte bovino che ammonta a 11 milioni di tonnellate a fronte di 20 milioni di tonnellate consumate. In altre parole l’Italia è diventata dipendente dall’estero per quasi la metà del proprio fabbisogno in prodotti lattiero caseari.
 
Una caratteristica distintiva e straordinaria della produzione lattiero-casearia italiana è la sicurezza alimentare e la qualità che esprime le nostre stalle sono le più controllate al mondo (in media un controllo, diretto o in auto controllo, settimanale) e offrono un latte dalle elevate caratteristiche nutrizionali. Per quanto riguarda invece la qualità, è da sottolineare come oltre il 45% delle nostre produzioni serve a realizzare i migliori formaggi del mondo la cui qualità e distintività e strettamente legata alla produzione di latte dei nostri territori. L’intera filiera genera un valore di 28 miliardi di euro al consumo con quasi 180mila occupati.

Latte straniero in 3 cartoni su 4
E come se non bastasse la pressione economica a cui sono sottoposti gli allevatori italiani, a peggiorare la situazione è l’origine dei latticini che troviamo abitualmente sugli scaffali dei supermercati. Tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro venduti in Italia sono stranieri mentre la metà delle mozzarelle sono fatte con latte o addirittura cagliate provenienti dall'estero, ma nessuno lo sa perché non è obbligatorio riportarlo in etichetta.
 


Dalle frontiere italiane passano ogni giorno 3,5 milioni di litri di latte sterile, ma anche concentrati, cagliate, semilavorati e polveri per essere imbustati o trasformati industrialmente e diventare magicamente mozzarelle, formaggi o latte italiani, all'insaputa dei consumatori. Nell’ultimo anno hanno addirittura superato il milione di quintali le cosiddette cagliate importate dall’estero, che ora rappresentano circa 10 milioni di quintali equivalenti di latte, pari al 10% dell’intera produzione italiana. Si tratta di prelavorati industriali che vengono soprattutto dall’Est Europa che consentono di produrre mozzarelle e formaggi di bassa qualità.

Un chilogrammo di cagliata usata per fare formaggio sostituisce circa dieci chili di latte e la presenza non viene indicata in etichetta. Oltre ad ingannare i consumatori ciò fa concorrenza sleale nei confronti dei produttori che utilizzano esclusivamente latte fresco. L’assenza dell’indicazione chiara dell’origine del latte a lunga conservazione, ma anche di quello impiegato in yogurt, latticini e formaggi, non consente di conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative, ma impedisce anche ai consumatori di sostenere le realtà produttive nazionale e con esse il lavoro e l’economia del vero Made in Italy.
 
«In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza - ha affermato Roberto Moncalvo - con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti, ma anche con l’indicazione delle loro caratteristiche specifiche a partire dai sottoprodotti. Non è un caso che l’89% dei consumatori ritiene che la mancanza di etichettatura di origine possa essere ingannevole per i prodotti lattiero caseari, secondo la consultazione pubblica online sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari condotta dal ministero delle Politiche agricole che ha coinvolto 26.547 partecipanti sul sito del Mipaaf dal novembre 2014 a marzo 2015».
 
Si tratta di una iniziativa promossa sulla base del regolamento comunitario N. 1169 del 2011 entrato in vigore il 13 dicembre del 2014 che consente ai singoli Stati Membri di introdurre norme nazionali in materia di etichettatura obbligatoria di origine geografica degli alimenti, qualora i cittadini esprimano in una consultazione parere favorevole in merito alla rilevanza delle dicitura di origine ai fini di una scelta di acquisto informata e consapevole.

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