Il Dossier della Coldiretti “La crisi nel piatto degli italiani nel 2014” in merito al tema della pizza dichiara che due pizze su tre sono ottenute lavorando ed utilizzando ingredienti di bassa qualità provenienti dall’estero. Ulteriore dato è che il 25% dei consumatori ha rinunciato ad andare in pizzeria ed il 40% ha ridotto le presenze. Non ci permettiamo di confutare i dati che perciò prendiamo per veritieri per definizione, e ci accingiamo volentieri a far emergere spunti di riflessione.
Innanzitutto l’affermazione “due pizze su tre” la trasliamo a “due pizzerie su tre” delle circa 50mila presenti in Italia. Spostiamo l’osservazione dall’incolpevole “oggetto” pizza, laddove non si capirebbe come nell’ambito della stessa pizzeria una pizza su tre verrebbe prodotta lavorando ed utilizzando ingredienti made in Italy, al “colpevole” soggetto pizzaiolo, inteso come il responsabile della pizzeria, il responsabile degli acquisti, il responsabile di quanto somministra ai suoi avventori.
Orbene, focalizziamo l’attenzione sul novero di “una pizzeria su tre”, ovvero di quelle pizzerie, all’incirca 18mila, che lavorano e adoperano ingredienti made in Italy e grazie alle quali, pertanto, ancora si può definire la pizza come uno tra i cibi maggiormente emblematici del nostro Belpaese. Stiamo allora affermando, da autorevole dossier confortati, che in Italia ben 18mila pizzerie hanno intrapreso il percorso virtuoso del mantenimento, auspichiamo il progressivo tendenziale incremento, del proprio standing qualitativo cominciando (è il molto ma non è il tutto) dalla qualità degli ingredienti, dall’imprenscindibilità del loro essere italiani.
Come riconoscere, al netto di vetrofanie e di dichiarazioni autoreferenziali, queste pizzerie “virtuose”? La risposta è di disarmante semplicità. La risposta è: dal menu portato al tavolo. Le pizzerie “una su tre” non solo non hanno timore, bensì hanno piacere e si sentono onorate per quanto ciò suggella il loro lavoro seriamente svolto, ad esibire un menu che, tante volte lo si è già detto, mutua la sua modalità di presentarsi dal concetto industriale di distinta base, ovvero di componenti e composto.
È il cosiddetto rigo due di ogni singola pizza posta nell’offerta. La pizza è un composto. Per definizione è l’articolata e complessa sommatoria di componenti. “Due pizzerie su tre” tacciono, mantengono nascosti i componenti. “Una pizzeria su tre” dichiara in forma scritta, sul menu dato in lettura ai clienti, con quali componenti mette capo a quel composto che si chiama pizza. Cominciamo dall’ingrediente fondamentale: la farina. Pochi, probabilmente non eccedono la dozzina, i molini che lavorano grano italiano. Ecco, “una pizzeria su tre” dichiara quale farina adopera, da quale molino proveniente.
Circa l’olio, qui non solo si tratta di adoperare (ci mancherebbe altro) esclusivamente l’olio extravergine di oliva ma addirittura in alcuni casi si comincia a fare uso distinto di particolare olio extravergine di oliva a fronte della specifica pizza e quindi del suo specifico topping. Si opta pertanto, a seconda della pizza esitata, per filino d’olio in uscita forno che possa essere un fruttato intenso piuttosto che fruttato leggero piuttosto che fruttato medio. Sovente le bottiglie d’olio sono portate in tavola per l’ultimo eventuale filino effettuato direttamente dal cliente.
Circa i formaggi freschi a pasta filata, qualora si parli di mozzarella di bufala, in rigo due si dichiara che è Mozzarella di bufala campana Dop e sovente vi è menzione del caseificio. Circa il pomodoro, anche qui si è abbondantemente usciti dal pomodoro inteso come commodity, il più delle volte presentato nella sua triste sembianza liquida di “passata”, e in “una pizzeria su tre” vi è evidenza di quale sia il pomodoro italiano usato, soprattutto se ciò riguarda il San Marzano Dop ed il pomodoro del Piennolo del Vesuvio Dop.
Si diceva che l’ingredientistica è il molto ma non il tutto. Si pensi, nell’ambito del processo di lavorazione, sia ai lieviti adoperati per l’impasto che ai tempi di lievitazione. Qui, lo si dice senza facezia, la prova della bontà è… post notte. Posto che la pizza abbia costituito cena: abbiamo dormito bene, senza pesantezza di stomaco e senza dover bere litri di acqua? Se sì, i tempi di lievitazione dell’impasto sono stati quelli giusti, ovvero nell’intorno delle dodici ore.
E qui si tace delle componenti di servizio, inteso anche come competenza del personale di sala, e dell’offering del beverage.
E allora, “una pizzeria su tre”, diciamolo serenamente e con orgoglio, non sta risentendo del fenomeno crisi. Davanti a queste pizzerie, siamo pronti a corredare fotograficamente quanto affermiamo (ci riferiamo a Napoli e ad altre zone della Campania), ci sono code di clienti in attesa sia a pranzo che a cena, e non parliamo del sabato sera.
Ribadiamo che non vi è stata confutazione alcuna dei dati. Anzi, è dalla loro lettura che abbiamo tratto conforto per le nostre osservazioni. “Una pizzeria su tre”, per la delizia di clienti competenti, che si sentano clienti e non avventori, per la salvaguardia della pizza come cibo emblematico del nostro Belpaese, per la soddisfazione dei tanti turisti stranieri che mai lascerebbero l’Italia senza aver mangiato almeno una volta la pizza, “una pizzeria su tre”, va bene così.