Bauman seppe raccontarci, virava il millennio, i cambiamenti che attraversiamo e percepiamo ed anche, cosa ancora più ardua, le tendenze; i cosiddetti trend. Si dice che si è bravi, e poi audaci allorquando si è lesti ad individuare i trend, meglio ancora, gli early warnings, ovvero i primi segnali deboli preannuncianti cambiamenti e commutazioni di stato.
Dobbiamo a Bauman, e volentieri ce lo teniamo come linguaggio ormai introitato, la modernità “liquida”, ovvero la svolta dalla solidità rocciosa dell’epoca industriale fordista all’attuale instabile fragilità. Bauman vede il declino, ovvero la scomposizione e la scomparsa dell’organizzazione economica, sociale e politica, intesa come il rassicurante sostrato industriale in grado di reggere l’intero edificio.
Questa base, fino al penultimo decennio del secolo scorso, irradiava sicurezze e solidità nel corpo sociale. E ciò avveniva anche grazie alla redistribuzione della ricchezza ad opera di uno Stato capace di provvedere alla copertura di alcuni bisogni primari: insomma, il defunto welfare.
Oggi, complice la coesistenza tra mondo degli atomi e mondo dei bit, ovvero la grande rete internet, si evidenzia la volatilità globale dell’economia, la presenza forte e potente dei global players trasforma la nostra vita e ci pone tutti, chi più e chi meno (e chi ancora molto meno) nella situazione di “costante precariato”.
E vogliamo mai pensare che un business perdurante da almeno 2mila anni, parliamo di Horeca, non risenta anch’esso di questa modernità liquida? E allora, come si rimodella il business della ristorazione al cospetto di tale tumultuante liquidità? Mera convenienza espositiva ci fa lavorare al riguardo con esame agli stakeholders.
Partiamo dai fornitori. Acclarata, finalmente, l’insipienza di medio termine di un conclamato km zero tanto finto quanto velleitario ed antistorico, la liquidità abilita l’efficace attuazione della filiera corta con l’eliminazione spiccia di gangli intermedi che non arrecano valore, dacchè il loro valore era basato sull’ignoranza del ristoratore e sul colmare asimmetrie di spazio e di tempo (logistica e delivery).
Oggi la tecnologia, in uno con la rivoluzione cognitiva resa possibile dalla rete, abilita shortcut di filiera. Quindi, in altre parole, un passaggio diretto da produttore a ristoratore con i requisiti, a tendere di default, della tempesività di approvvigionamento e dell’elevato standing qualitativo portato a norma.
Fornitori liquidi per quanto mutevoli ed intercambiabili a fronte di retiterate inadempienze ma, attenzione, anche i loro clienti (ovvero il ristoratore medesimo) passibile di mancata erogazione a fronte della più retriva e nociva delle inadempienze: il mancato rispetto dei concordati tempi (e modalità) di pagamento.
Tra i fornitori, commutazione di stato da un passato di monopolio, inseriamo anche gli erogatori delle utility. Le istituzioni pubbliche ed il credito, stakeholders cruciali e sovente viste come forze zavorranti, diventano elementi liquidi per come tendenzialmente obbligate alla trasparenza le prime e inserito in forte agone competitivo il secondo, dopo la lunga stagione delle foreste pietrificate.
I concorrenti. Praticamente indefinibili e perciò liquidi. È davvero un altro ristorante, il concorrente del ristorante soggetto?
Sì, quasi certamente sì, ma certamente non l’unico. Può esserlo a pranzo il bar con fornito e valevole food corner, può esserlo l’agriturismo fuori porta, può essere una proposta home di catering domenicale.
Attenzione, in termini di spending, il fenomeno è ancora più liquido. Se l’esperienza al ristorante è vissuta come coacervo di emozioni, nella serata infrasettimanale, può essere concorrente la partita di calcio in tv da vedere con gli amici, come il film al cinema.
Oggi l’antidoto alla concorrenza è antidoto liquido. Il concorrente si commuta in collega e si attua circuito di qualità, addivenendo, in stagione appropriata, a stilare cartellone di eventi che sia equilibrio tra gli offering e che razionalizzi quanto vive irrazionalmente nella testa dei ristoratori, ovvero che ognuno abbia i “propri” clienti. I clienti sono liquidi, non appartengono a nessuno. I clienti appartengono a se stessi, e basta.
E ci siamo, i clienti, appunto. Poco fedeli per definizione, volubili e strani. Unici strumenti efficaci quelli liquidi del web 2.0: social media mediante i quali porsi all’ascolto piuttosto che comunicare one way. Edificare relazioni. Saper davvero giocare a tennis, non essere esperti soltanto nella battuta. Il cliente non ci sta ad andare al ristorante e fare solo il cliente. Si atteggia in postura liquida, vuole essere cuoco e sommelier. E blogger recensore. E… sì può. È in facoltà di farlo.
Le persone che lavorano all’intrapresa. Persone. Al bando il falso, ancorchè dannoso liquido della precarietà e di accentuato turn over, a beneficio di una liquida job rotation e, ancor più, di una costante crescita professionale. Un paradosso enorme e perciò fortemente significativo: tutti, dallo chef alla plonge, tutti laureati!
Sì, persone liquide, dacchè l’intrapresa impatta sull’economia della conoscenza con fattore incidentale il cibo ed il vino, Si da da mangiare e da bere a gente che non ha fame e non ha sete. Non dimentichiamolo. È liquido, il ristorante. Ristorante inteso come quel luogo dove si va per vivere una deliziosa esperienza cognitiva ed emozionale, dove il ruolo del cliente ha canovaccio e poi recitazione a soggetto.
Dove nei fatti è continuo edutainment, con persone che sanno raccontare la bimillenaria, sedimentata, cultura materiale del cibo e della cucina. È liquido, il ristorante che agisce in società liquida. Agli albori dell’era glaciale, il mammuth, l’animale più forte, non si mobilitò, e si estinse. L’antilope, veloce nel capire e nell’agire, si mobilitò e sopravvisse.