Un ristorante è un'impresa? La domanda potrebbe sembrare banale, ma non lo è. La crisi economica, ma soprattutto un fisco sempre più vorace, sta mettendo a dura prova tutto il comparto, nel silenzio più totale. Ristoranti del territorio, espressione e memoria di una cultura, stanno scomparendo; le vecchie generazioni, le vecchie gestioni familiari non riescono più a tenere il passo di un mercato sempre più concorrenziale e non certamente per la qualità. Ristoranti, trattorie, osterie, ma anche pizzerie, stanno lottando per resistere, in una resistenza umana, ultime retroguardie di un mondo che sta scomparendo.

Di chi è la colpa? Prima di arrivare all'ultima responsabile che è anche la crisi, vale la pena fare un'analisi schietta e senza peli sulla lingua. I ristoratori e i cuochi hanno colpe? Certo, non abbiamo saputo interpretare i segnali che il 'mercato” ci stava dando. Ubriachi come eravamo a scopiazzare le mode che arrivavano dalla Spagna. Nel frattempo le mode hanno fallito e noi siamo rimasti con i sifoni, con l'azoto, con le alghe e le molecole sul fondo dei nostri bilanci ormai ridotti, appunto, a molecole invisibili. E oggi, incredibile, i migliori cuochi sono quelli che utilizzano erbe e licheni.
Nel frattempo i giovani cuochi hanno dimenticato come si cucina una vera cotoletta di vitello alla Milanese, o un buon sugo di pomodoro, tra l'altro non degni di menzione, di stelle o cappelli sulle guide nazionali, ma anche ricette e piatti spesso non interpretati come un'emozione da 'vendere” a un cliente sempre più frastornato da carpacci di gamberi, tonno e altre offerte. Poi ti succede, come è successo al sottoscritto, che un buon ristorante sulla strada da Sondrio verso Bormio (So) non abbia in carta i pizzoccheri se non prenotandoli, convinto che i milanesi di passaggio preferiscano il sushi agli sciatt.
Altre responsabilità dei ristoratori? Ce ne sono a chili! Per esempio il ricarico del vino. Tutti, ma proprio tutti, sentenziano; il vino non si vende perché i ristoratori vogliono guadagnare troppo. Santa verità, peccato che gli stessi, o sono degli incapaci, oppure non sanno far di conto. Peccato che in verità, le aziende agricole e vinicole abbiano trasformato le loro aziende grazie a generosi contributi.
Tutti convinti che i ristoratori vendano il vino e il cibo. Per esempio da più parti si reclama il diritto del vino non consumato, oppure della possibilità di portarsi il vino da casa, inventando frasi tipo 'diritto di tappo” . Già quell'imprenditore di ristoratore cosa vuoi che faccia? Tra caccia alle streghe di scontrini e ricevute non fatte, come può reagire? Come può difendersi? è sempre in difetto.
Ma il ristoratore vende solo il cibo e il vino? No di certo! Vende ospitalità, vende accoglienza, vende il territorio, vende un gesto simbolico che è un atto agricolo, vende unìartigianalità, vende una manualità, vende una creatività, vende una storia e una cultura, vende e offre una memoria, un gesto ancestrale che nasce con l'uomo stesso: saper trasformare il cibo.
Che prezzo ha tutto questo? Può essere la somma solo delle materie prime che mettiamo in un piatto? Può essere solo il gesto di aprire una bottiglia e versare il vino in un bicchiere? No, certamente no!
Ma non possiamo parlare sempre della crisi, dei controlli fiscali, dei blitz, delle imposte triplicate, della Tarsu (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani), dell'Imu, dell'occupazione degli spazi pubblici, imposte impazzite, triplicate.
Non siamo una categoria poco unita. Siamo goderecci, partecipiamo in massa alle feste, ai congressi, alle degustazioni, vergognosi di dirci come stanno le cose. Viviamo in solitudine un lento declino. I più bravi fanno consulenze, libri e altro; i più bravi ancora fingono di essere titolari in realtà hanno alle spalle gruppi o aziende in grado di mantenere in vita almeno il prestigio professionale.
Ma la domanda è, perché tutto questo? Perché non siamo in grado di dire, di urlare, di farci ascoltare, che il ristoratore non è un azienda, non è un impresa, forse non siamo neanche artigiani come spesso ci raccontiamo, ma di sicuro non siamo commercianti.

Chi è quell'imprenditore che fa realmente 15 ore al giorno di lavoro? Chi è quell'imprenditore che ha acquistato centinaia e centinaia di bottiglie di vino, da conservare in cantina per offrirle al cliente nel giusto invecchiamento, e che oggi l'agenzia delle entrate punisce in quanto il magazzino è imponibile da tassare come se tu il vino l'avessi venduto tutto? Una storia, una cultura che sta finendo.
L'imprenditore ristoratore non ha coperture fiscali e sociali, se non lavori, i tuoi dipendenti ti costano come se il ristorante fosse pieno. Certo qualcuno dirà che c'è il lavoro a chiamata, i voucher, ma così non c'è più la professionalità, la competenza, la passione.
E in tutto questo silenzio. Le catene commerciali cominciano a riempire gli spazi che purtroppo sono sempre più vuoti. Il nostro Paese vuole questo? Non siamo imprese, non siamo aziende commerciali, dobbiamo chiedere aiuto prima che sia troppo tardi.