Il tanto discusso “bonus filiera Italia” varato con il decreto agosto (i 600 milioni di euro voluti dal ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova per sostenere le aziende della ristorazione e l’acquisto di prodotti made in Italy), trova tra i maggiori e convinti sostenitori Filiera Italia, la fondazione impegnata nella rappresentanza unitaria e nella promozione del settore agroalimentare italiano. Ma questa misura non basta. Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia nonché amministratore delegato di Inalca, in un’intervista rilasciata al Corriere della sera, sottolinea che «per fare un vero salto di qualità servirebbe un ministero dell’Alimentazione. Le competenze legate al settore sono suddivise su almeno tre dicasteri. Oltre all’Agricoltura ci sono Mise e ministero della Salute. Avere un unico referente renderebbe i tempi di decisione più rapidi e garantirebbe una più efficace visione unitaria di filiera».
Un’idea senz’altro apprezzabile per dare il giusto peso al settore, ma che, come abbiamo più volte evidenziato, richiederebbe anche l’accorpamento del Turismo, che dopo essere stato spostato due anni fa nel dicastero delle Politiche agricole guidato dall’allora ministro Gian Marco Centinaio, in seguito, con la nascita del governo giallo-rosso, è ritornato a far parte del Ministero dei Beni e attività culturali.
Luigi Scordamaglia
Il bonus di filiera (pari a un contributo a fondo perduto che va da 2.500 a 5.000 euro), dice Scordamaglia, «è uno strumento utile a cui abbiamo creduto e che abbiamo fortemente sollecitato.
Il 34% dei consumi alimentari in Italia passa dalla ristorazione. Negli ultimi 12 anni, mentre i consumi domestici delle famiglie lasciavano sul terreno 16 miliardi, quelli nei ristoranti sono cresciuti di 6 miliardi. Questa tendenza si è arrestata con la pandemia. Che ha penalizzato in particolare alcuni prodotti che vengono venduti nei ristoranti, come formaggi e vini di qualità. Ecco perché il bonus è importante».
Sul tetto dei 600 milioni di euro, che inizialmente doveva arrivare al miliardo, Scordamaglia si dice d’accordo con
Federalimentare nell’affermare che la cifra è troppo bassa, ma precisa: «È pur sempre un
meccanismo premiante che funziona. Inoltre sull’export abbiamo ottenuto un piano di country branding con Ice, Sace e Siemest. Oltre un miliardo sarà investito e l’alimentare giocherà la parte del leone. Bisogna riconoscere che il governo sta sostenendo il nostro export».
Un altro problema è quello dei
dazi Usa. L’Italia non ha visto l’introduzione di nuove misure, al contrario di Francia e Germania che sono state maggiormente penalizzate. «Non sottovalutiamo il rischio che deriva dall’effetto combinato di dazi ed emergenza Covid», sottolinea Scordamaglia. «Negli ultimi cinque anni il settore alimentare aveva messo a segno un grande risultato con l’aumento dell’export del 30%. Non vogliamo vanificare gli sforzi fatti. Purtroppo uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia, gli Stati Uniti, è anche uno dei più importanti per il nostro export. È vero, vino, olio e pasta sono stati “graziati” ma per altri comparti non è così. Penso a formaggi, salumi, liquori tradizionali. Qui restano i dazi aggiuntivi del 25%. E attenzione, il danno rischia di diventare strutturale perché l’incrementata differenza di prezzo favorisce i produttori americani dell’Italian sounding, le imitazioni dei nostri prodotti alimentari».