C’è un luogo comune duro a morire, una convinzione collettiva che resiste a ogni prova del palato: quella secondo cui l’espresso italiano sarebbe il migliore del mondo. È il nostro orgoglio quotidiano, l’emblema di un’identità nazionale che si consuma in trenta millilitri di liquido scuro. Eppure, a ben guardare, l’espresso che beviamo ogni giorno racconta un’altra storia. Quella di un Paese che ha trasformato una bevanda straordinaria in un’abitudine mediocre, e che continua a difenderla come simbolo di eccellenza mentre, in realtà, ne ha smarrito da tempo la qualità. È l’orgoglio cieco di un popolo che ha fatto del caffè un rito identitario, un gesto sacro, un simbolo nazionale, che però, nella maggior parte dei casi, continua a bere qualcosa di cattivo. Amaro, bruciato, eccessivamente estratto. Un gusto standardizzato, uguale ovunque, che abbiamo imparato a riconoscere come “il vero espresso italiano”.
Il risultato di una scarsa cultura del prodotto
Eppure, quel gusto non è altro che il risultato di decenni di scarsa cultura del prodotto. Dalla moka del dopoguerra alle capsule di oggi, l’Italia ha costruito una religione domestica del caffè, ma senza mai davvero conoscerlo. Dopo la ricostruzione, il bar è diventato un luogo sociale prima che gastronomico: l’espresso non era una bevanda da intenditori, ma un rito di comunità. Si andava al bar per parlare, per incontrarsi, per un gesto quotidiano che dava conforto e identità. Ma intanto, dietro il bancone, la qualità del prodotto scendeva. Negli anni ’60 e ’70 le torrefazioni industriali hanno iniziato a diffondersi in modo capillare. Il caffè veniva tostato scuro, spesso scurissimo, per coprire difetti di selezione e di provenienza.

L’espresso italiano, frutto di ignoranza diffusa e qualità trascurata
In pochi si chiedevano da dove arrivassero quei chicchi: Brasile? Vietnam? Etiopia? Kenya? A nessuno interessava davvero. Bastava che la tazzina fosse calda e che il gusto fosse forte. “Amaro uguale buono”, questo è diventato l’assioma nazionale. Negli anni successivi, l’esplosione dei bar - spinta anche dal fenomeno del comodato d’uso gratuito con cui le torrefazioni fornivano macchine, attrezzature e arredi chiavi in mano - ha completato il quadro. Bastava poco per aprire un bar: qualche corso rapido, la macchina in comodato, una fornitura obbligatoria di miscela. Così si è diffusa una nuova generazione di baristi improvvisati, più operatori di macchine che artigiani del caffè. Il risultato? Una marea di locali tutti uguali, che servono espressi identici: forti, amari, corti.
In questo modo, come detto, il gusto si è standardizzato, la cultura si è fermata, e il mito dell’espresso italiano si è cristallizzato in un’illusione collettiva. Nel frattempo, fuori dai confini nazionali, il mondo del caffè è cambiato. In Australia, in Scandinavia, in Corea del Sud o negli Stati Uniti, sono nate nuove scuole e nuove sensibilità. I baristi hanno cominciato a studiare l’origine dei chicchi, la loro varietà botanica, la chimica dell’estrazione. È nato il movimento dello specialty coffee, che ha riportato il caffè alla sua complessità originaria: un prodotto agricolo, con territori, stagioni, storie e persone dietro ogni tazza. In Italia, però, queste parole suonano ancora come un linguaggio straniero.
Perché l’italiano medio beve caffè cattivo?
Quindi, perché l’italiano beve uno dei peggiori espressi del mondo? La risposta, in realtà, è semplice: perché non lo sa. Non sa riconoscere un difetto, non sa distinguere una tostatura corretta da una bruciata, non ha mai imparato che un espresso può essere dolce e rotondo. Ma dietro l’ignoranza sensoriale si nasconde un sistema intero - culturale, economico e industriale - che ha reso il cattivo caffè la norma. Per decenni, il gusto amaro è stato sinonimo di autenticità. È un retaggio culturale, ereditato da un Paese che ha imparato a diffidare della dolcezza e a identificare la forza con la verità. Nell’immaginario italiano, un caffè troppo morbido è un caffè “annacquato”, un caffè “da americani”. L’espresso deve essere breve, scuro, quasi violento: una scossa che risveglia più che un’esperienza da gustare. È un modello costruito su pragmatismo e fretta, non su piacere e consapevolezza.

L'italiano non sa distinguere una tostatura corretta da una bruciata
Poi c’è il fattore economico. Il caffè è un prodotto che si vende a margini bassissimi: una materia prima povera trasformata in simbolo quotidiano. Per far quadrare i conti, molti bar scelgono la miscela più economica. Le torrefazioni, a loro volta, abbassano la qualità per mantenere il prezzo competitivo. È una catena che penalizza tutti: il produttore che riceve meno, il torrefattore che deve tostare scuro per uniformare, il barista che serve un prodotto mediocre, e il consumatore che finisce per considerarlo normale, persino “buono”. Ma la ragione più profonda è psicologica. Gli italiani sono convinti di saperne di caffè perché ne bevono tanto (anche se non sono i primi consumatori al mondo). È l’effetto dell’abitudine: confondere la frequenza con la competenza. Nessuno si domanda se quel gusto amaro che raschia la gola sia davvero “buono”: è semplicemente “come dev’essere”. Non si assaggia, si ingoia. Non si pensa, si ripete. L’italiano beve caffè cattivo perché non sa, ma soprattutto perché non vuole sapere.
Il consumatore italiano non è mai stato educato
La verità è che il consumatore italiano non è mai stato educato. Nessuno gli ha spiegato che un caffè può essere dolce senza zucchero, che un espresso ben estratto non deve raschiare la gola, che il colore del chicco dice molto sul rispetto della materia prima. Le torrefazioni, per decenni, hanno avuto tutto l’interesse a mantenere questa ignoranza. È più comodo vendere un prodotto standardizzato, confezionato in un racconto di “tradizione”, che investire in cultura, formazione e trasparenza. E i baristi, spesso vincolati da contratti rigidi o semplicemente privi di strumenti, hanno perpetuato un modello di consumo che scambia la forza con la qualità.

Il consumatore italiano non è mai stato educato alla cultura del caffè
Il risultato è un cortocircuito culturale: l’Italia, patria autoproclamata dell’espresso, è oggi tra i Paesi meno consapevoli del valore reale del caffè che beve. Siamo affezionati a una caricatura di gusto, incapaci di distinguere un difetto di tostatura da una scelta stilistica. Persino il lessico tradisce la nostra inconsapevolezza: “miscela italiana” è diventato sinonimo di qualità, quando in realtà è solo un modo elegante per non dire nulla sull’origine del prodotto.
Il caffè italiano deve ripartire dalla cultura
Oggi, mentre il mondo guarda avanti, l’Italia resta ferma su una montagna di certezze vecchie. Nei bar si parla ancora di miscela “robusta” come se fosse un pregio, si serve un espresso bruciato con fierezza, si ignora che ogni origine ha una storia, un profilo sensoriale, un volto umano dietro la coltivazione. La cultura del caffè - quella vera, fatta di conoscenza, rispetto e consapevolezza - è rimasta ai margini, relegata a poche torrefazioni indipendenti virtuose e a una manciata di baristi curiosi che cercano di cambiare le cose. Il problema non è solo il barista improvvisato o la torrefazione industriale. Il problema è un intero Paese che ha smesso di farsi domande. Che si accontenta dell’abitudine e della retorica, e confonde la forza con la qualità. Perché il vero espresso italiano, quello buono davvero, è quello che ancora non conosciamo.
L’inchiesta di Italia a Tavola sul caffè