Il peperoncino made in Italy è schiacciato dalle importazioni selvagge a prezzi stracciati e di bassa qualità provenienti dai mercati extra-Ue. Basti pensare che Cina, Turchia ed Egitto invadono il mercato con 2mila tonnellate di prodotto l'anno. A lanciare l'allarme è Cia-Agricoltori Italiani, fotografando uno dei simboli gastronomici nazionali che per svilupparsi e competere ha bisogno di una filiera di qualità superiore, innovativa e integrata.
Cina, Turchia ed Egitto invadono il mercato con 2mila tonnellate di prodotto l'anno
Il problema maggiore di questa coltivazione, solo in rari casi specializzata, è legato a prezzi non concorrenziali. In Italia, da 10 kg di peperoncino fresco si ottiene 1 kg di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro; l'analogo prodotto dalla Cina costa appena 3 euro ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata, compresi picciolo, foglie e radici.
L'elevato costo della produzione italiana, spiega Cia, è dato, soprattutto, dall'incidenza della manodopera e da procedure di trasformazione altamente professionali, compresi macchinari per l'ozono per una perfetta essiccazione. Da qui la necessità, secondo Cia, di una maggiore valorizzazione e tutela del prodotto italiano grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno. La creazione di denominazioni di origine territoriale, ad esempio, darebbe al consumatore garanzia di qualità, tracciabilità e salubrità e un valore aggiunto adeguato alla parte produttiva. L'obiettivo è di aumentarne la coltivazione estensiva, localizzata oggi soprattutto in Calabria (100 ettari, con il 25% della produzione), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Il tutto per una quantità che copre appena il 30% del fabbisogno nazionale.
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