Il Covid ha scombussolato il mondo del lavoro. Anche se in Italia le criticità erano ben presenti prima dell’avvento della pandemia. A ricordarlo è stata Confcommercio che ha presentato un’analisi dal titolo Le giovani generazioni in Italia prima della pandemia. Il risultato? Dal 2000 al 2019 i giovani occupati nella fascia d’età 15-34 anni sono diminuiti di 2,5 milioni di unità. Molte delle quali, complice l’ultimo anno e mezzo sui generis, nel comparto dell’accoglienza.
I dati del report Confcommercio: 365mila giovani espatriati in 20 anni
Andando più nello specifico, negli ultimi 20 anni la perdita di lavoro giovanile è coincisa anche con un aumento dei Neet (coloro che non studiano né lavorano o sono alla ricerca di un lavoro): 50% della popolazione fra i 15 e i 34 anni. Non che le cose vadano meglio per chi un impiego ce l’ha: dal 2000 al 2019 si sono ridotti di un quarto i lavoratori dipendenti (-26,6%) e risultano dimezzati (-51,4%) gli indipendenti. Dato, quest’ultimo, reso ancor più drammatico se si pensa che nello stesso lasso di tempo sono scomparse anche 156mila imprese giovanili mentre 365mila giovani sono espatriati in cerca di lavoro. Insomma, «è evidente – conclude il report di Confcommercio - che la questione demografica e quella giovanile rischiano di indirizzare il Paese verso un sempre più marcato declino e non è un caso che ogni anno, in Italia, ci sono 245mila ricerche di lavoro insoddisfatte da parte delle imprese».
Cambiare il sistema per ripartire
Leggendo questi dati alla luce della mancanza di forza lavoro nell’ambito della ristorazione e del turismo più volte raccontata da Italia a Tavola, le domande sul “perché” si sia arrivati a una situazione simile si rincorrono. In gioco c’è la capacità di ripartire dopo i mesi più duri della pandemia. Per farlo, oltre al progressivo allentamento delle restrizioni e al progresso della campagna vaccinale, c’è da agire sui fondamentali.
Luca Mora (Uic): «Siamo tornati agli anni '80, cuochi pagati troppo poco»
«In molti hanno cambiato lavoro durante la pandemia. Essenzialmente perché vengono malpagati. Un trend che continua ancora adesso a causa delle ristrettezze economiche di molti datori di lavoro del settore ristorativo a cui fa da contraltare la richiesta economica di professionisti stanchi di fare 10-12 ore al giorno e non riuscire a vivere con 1.200 euro al mese», afferma Luca Mora, presidente nazionale dell’Unione Italiani Cuochi (Uic). Da qui un moto di disaffezione per un settore che, negli ultimi anni (complice anche l’esplosione del fuori casa e della figura dello chef alla tv), era riuscito a ritagliarsi un posto al sole.
«Il problema del giusto rapporto fra lavoro, vita privata e compenso c’era anche prima del Covid. Ma sicuramente la pandemia ha dato avvio a un domino senza precedenti con molti professionisti alla ricerca di un posto di lavoro là dove le attività potevano rimanere aperte», spiega Mora. E quel “là” significa anche all’estero: «Ancora in queste settimane conosco colleghi che si stanno spostando fuori dall’Italia: Svizzera, Germania e Spagna in Europa. Meno la Gran Bretagna dove fra Brexit e variante Delta le prospettive sono più incerte», rivela Mora.
E per chi rimane? «Sembra di essere tornati al 1980 quando ho iniziato a lavorare io. È venuto meno il rispetto della professionalità acquisita. Molti cuochi, soprattutto giovani, entrano in una cucina e vengono trattati male. Magari imparano, ma sicuramente non sono pienamente soddisfatti. E non parlo del lato economico dove le cifre per gli apprendisti sono irrisorie», conclude Mora.
Il salario è uno delle voci più critiche quando si parla di lavoro nell'Horeca
Fabrizio Ferrari (Fisascat): «Destagionalizzare per dare più stabilità ai lavoratori»
Come fare per uscirne? La soluzione, seppur drastica, la propone Fabrizio Ferrari, presidente nazionale di Fisascat, sindacato dei lavoratori del turismo e dei servizi della Cisl: «Bisogna destagionalizzare maggiormente il picco turistico e permettere al settore di operare in un contesto temporale più lungo che si traduce anche in contratti di lavoro più stabili». Certo, impossibile chiedere il “posto fisso” alla Checco Zalone in certi settori ma una maggiore tutela della professionalità sicuramente sì.
«Va ripensato il modo in cui si svolge l’attività ristorativa e alberghiera: dalla retribuzione al tipo di contratto applicato passando per un rinnovamento delle abitudini imprenditoriali», afferma Ferrari. Detto diversamente: stop ai part time fasulli, maggiori tutele per gli stagionali e più collaborazione con lo Stato nei suoi vari livelli amministrativi. L’obiettivo è quello di migliorare la proposta ricettiva affinché i primi a beneficiarne siano i lavoratori, prima ancora che i clienti.
«Penso a una destinazione come la Sardegna: è impensabile che possa reggersi solo su un picco estivo di tre mesi. Quel territorio, come gran parte della Penisola, ha tutte le carte in regola per essere attivo 365 giorni all’anno. L’obiettivo dell’intero comparto dovrebbe proprio essere questo: non concentrarsi sui soliti picchi estivi ma incentivare la vivacità di un territorio attraverso eventi culturali, sagre, fiere, manifestazioni, eventi, ecc così da attirare ospiti e clienti tutto l’anno e dare respiro a lavoratori e aziende che non possono più permettersi lunghi periodi di inattività», conclude Ferrari.