Da tempo vado scrivendo e raccomando a cuochi e ristoratori di usare la fantasia e l'inventiva in cucina con una certa discrezione, senza esagerare. Far arrivare nel piatto al cliente cibi ibridi, con troppe architetture estetiche e troppi ingredienti fusi tra loro, fa sì suscitare un interesse immediato e giusta curiosità, ma non fa ritrovare al cliente, soprattutto quello più adulto, i buoni ricordi gastronomici gustati in famiglia, quando a cucinare era la mamma o la nonna. Attraverso una serie di interviste, sostiene questa tesi - che il sapore dei cibo di casa resta in noi come segno di affetto e ci accompagna per tutta la vita - anche uno studio promosso dal Mauri Lab, osservatorio-laboratorio internazionale, creato dall'omonima azienda italiana di formaggi.
Per il 63% degli intervistati il cibo ha il potere di riportare alla mente la terra d'origine o un periodo della propria vita. Un effetto ancora più forte se non ci si limita a mangiarlo, ma lo si prepara anche: ai fornelli, il legame inconscio con un ricordo del passato diventa ancora maggiore. Preparare alcuni piatti può risultare un'esperienza terapeutica, in quanto attraverso alcuni sapori o profumi si può integrare o far rivivere quei legami affettivi, utili per combattere la solitudine così come ansia e stress.
Ma è soprattutto ritrovandoli al ristorante che scatta nel buongustaio una sorta di 'Amarfood” felliniano, un ritorno nel tempo dei ricordi gastronomici, un ritorno che fa sentire come protetti e fa affrontare meglio i mali della vita moderna. Per questo continueremo a scrivere che i sapori della tradizione, quelli genuini della cucina mediterranea, non devono mai essere sofisticati, globalizzati, urbanizzati, interpretati, reinventati…e aggiungete voi tutti gli altri aggettivi che giovani chef di tanto in tanto inventano.