Metti uno chef pluristellato, dei piatti ricercati, dei vini pregiati: immagina il tutto in una sala da self service e la buona cucina è finita. Non c’è piatto raffinato senza una presentazione adeguata, senza che qualcuno, porgendolo, ne esalti la preparazione e che prima ancora, consigliandone la scelta, abbia interpretato i desideri del commensale. Il personale di sala è l’anello più importante della catena che porta il cibo alla tavola, il punto focale dell’attività ristorativa. Maitre, cameriere, sommelier, barman che sia, non se ne può fare a meno. Oggi si parla solo di chef, spesso poco presenti in cucina, e poco della sua brigata, impegnata per lunghe ore. Ma ancora meno si parla di tutto il personale del ristorante, dalla cui professionalità dipende la riuscita finale di un’esperienza enogastronomica.
Il risultato è che le tante possibilità di lavoro offerte dal lavoro di sala non godono di un appeal sufficiente ad attrarre i giovani e la mancanza di vocazioni porta spesso all’assunzione di personale non qualificato. Nelle scuole alberghiere solo un allievo su 10, immune dall’ambizione di diventare un grande chef, sceglie un indirizzo lontano dai fornelli. È una vera emergenza, proprio mentre la ristorazione italiana si impone nel mondo.
Ne parliamo con Luca Boccoli (nelle foto), vicepresidente di “Noi di Sala”, un’associazione nata nel 2012 proprio per affrontare i problemi dell’accoglienza e della difficoltà di reperire professionalità di sala e di cantina. Il primo dei nodi è la mancanza di camerieri, tanto nei ristoranti stellati che nelle pizzerie. Lo incontriamo al Ristorante Settembrini dove svolge compiti di accoglienza e di responsabilità di cantina. Grande esperto di vini, ha contribuito alla stesura di importanti pubblicazioni.
Com’è nata questa associazione e come pensate di attrarre l’interesse dei giovani?
Con Marco Reitano de La Pergola del Rome Cavalieri ed altri amici del settore dell’accoglienza e della ristorazione ci siamo detti: dobbiamo fare qualcosa per questo mestiere che rischia di sparire. Se non lo facciamo noi non lo fa nessuno. E i grandi maestri di una volta non ci sono più. Cerchiamo di sensibilizzare i giovani che escono dalle scuole alberghiere cercando di avvicinarli alle professioni di sala, a questo mestiere antichissimo che è il cameriere. Non basta frequentare una scuola e imparare l’Abc del mestiere. Ci vuole partecipazione, grande disponibilità, sensibilità e - perché no - cultura. Abbiamo già un migliaio di associati e organizziamo convegni e corsi di formazione a Roma e a Milano.
Già la parola cameriere ha un non so che di servile, di subordinato, di negativo. Anche questo potrebbe contribuire ad allontanare i giovani?
Certo, abbiamo anche pensato a cambiare la parola, ma è un nome storico e vuol dire tante cose: comunicatore, venditore, psicologo, persona d’accoglienza. Un cameriere non si limita a portare il piatto. Il cuoco può fare un cibo straordinario ma se non è servito bene o raccontato come si deve può diventare cattivo in un minuto. Lo chef può essere il più bravo del mondo ma non sarebbe apprezzato come dovrebbe. Il cameriere è la prima immagine, il biglietto da visita del locale. Quei pochi minuti dell’accoglienza sono il momento più importante del pranzo o della cena. Anche il rapporto con il maitre, quando c’è, non deve essere sentito come subordinato ma di collaborazione, poiché in genere questa figura è un’evoluzione della professione.
Come potrebbero migliorare le scuole alberghiere?
Tanti anni fa avevano docenti che venivano da grandi alberghi, da navi da crociera mentre oggi chi insegna può vantare un diploma e solo tre o quattro stagioni. Non hanno esperienza, non solo per insegnare, ma soprattutto per trasferire ai giovani il senso della bellezza di un lavoro che ti fa guadagnare bene, girare il mondo. Anche da parte delle istituzioni ci sono delle carenze. Bisognerebbe valorizzare questo settore, risorsa preziosa per il nostro Paese. investendo di più, dando maggiori competenze alle scuole. Trenta anni fa a Londra per avere camerieri bisognava assumere stranieri, e questo di sta verificando anche in Italia. Sono i soli a mettersi in gioco in questo mestiere importantissimo, con buona volontà ma senza averne la preparazione.
È considerato un lavoro di ripiego, provvisorio? Forse è poco retribuito e integrato dalle mance, che poi sono sempre meno generose?
Non sono d’accordo. Il cameriere guadagna più di un aiuto di cucina, per esempio. Ma ai fornelli non esiste la crisi di vocazioni. Tutti vogliono fare gli chef anche se dopo un paio d’anni di fatica e 10-12 ore di lavoro ogni giorno, in molti gettano la spugna. Mi impressiona veder questi giovani di 25 anni che si chiamano e vogliono chiamarsi chef. Ma l’esperienza non si misura in anni e tanto meno non bastano alcuni stages per diventare chef. Anche nel mondo dei barman si sta verificando quello che è accaduto con i cuochi, sempre al centro del cono di luce. Si definiscono mixologist, ma la parola bartender significa letteralmente “al servizio del bar”. Ma alla fine il saper servire un cibo o una bevanda è un gesto d’amore, l’arte suprema.
Come dovrebbe porsi il cameriere nel rapporto con il cliente?
In questi ultimi 15 anni la clientela dei ristoranti è cambiata totalmente. Spesso va a cena fuori tanto per uscire, non ha competenza nonostante l’overdose di informazioni sul cibo che danno le pubblicazioni o la tv, non conosce le materie prime, talvolta non sa usare le posate o non conosce le regole del bon ton. In questo caso è preziosa la figura del cameriere che sa accoglierlo, consigliarlo e fargli apprezzare ciò che ha nel piatto. Ma è anche vero il contrario, il cameriere può apprendere molto dal comportamento dei clienti. È un lavoro che può dare una crescita interiore e poi esteriore. Nella mia carriera - ho fatto il barman, anche il maggiordomo e il maestro di cerimonie - ho girato l’Europa, imparando moltissimo dai clienti. La mancanza di questo scambio - direi culturale - è una delle cause dell’imbastardimento del mestiere. Se il cameriere ha una solida professionalità, può scegliere dove andare a lavorare. E non è poco. Da non trascurare anche l’aspetto e l’abito: barba fatta, ben pettinati e camicia rigorosamente bianca».
Quale futuro per questa professionalità?
Stiamo pensando ad un riconoscimento per il personale di sala e di cantina, come un albo professionale. E poi credo molto in questo lavoro al femminile, come avviene nel resto dell’Europa. Anche un errore può essere coperto da un sorriso. E poi le donne porterebbero bellezza ed eleganza, e dell’eleganza non si può fare a meno anche se il lavoro è duro e ogni giorno si ricomincia da capo. Giochiamo un ruolo, anche inconsapevolmente siamo un po’ teatranti, in un rito di bellezza. Vendiamo benessere, e questo non ha prezzo.