Il D'O e l'esperienza di Davide Oldani (cuoco dell'anno per i lettori di Italia a Tavola) diventano un caso si studio all'Universiotà di Harvard. ripèortiamo un articolo del Corriere della sera a firma di Michela Prorietti che bene illustra questa interessante novità.
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La chiamata questa volta non è arrivata da un critico gastronomico, ma da un economista colpito da una storia di Davide Oldani fatta di numeri e idee. Un incontro casuale, la curiosità, e per Davide Oldani, lo chef della cucina «pop», si sono aperte le porte di Harvard.
Solo Ferran Adrià, prima d'ora, era stato invitato su quella cattedra. A ottobre toccherà al cuoco milanese spiegare il suo metodo ad Harvard: più che di ricette si parlerà di strategia aziendale, perché il modello messo a punto da Oldani è apparso agli economisti harvardiani come una case-history da «oceano blu», quella teoria che premia chi sceglie di navigare in acque poco battute, abbandonando le logiche tradizionali. «Ne ho subito parlato con il professor Gary Pisano (uno degli economisti vicini ad Obama n.d.r.) - racconta Alessandro Di Fiore, presidente della Harvard Business Review Italia -. Dopo il mio resoconto lo ha voluto incontrare per intervistarlo e raccogliere il "modello" in un articolo che sarà a disposizione degli studenti di Harvard». L'intervista con Pisano, che ha definito la strategia «come qualcosa di unico che può essere applicato a qualsiasi impresa», è diventato un case study in cui lo chef ripercorre le tappe del suo successo. «Una parola che non uso mai: preferisco parlare di ciò che è "successo" nella mia vita», dice Davide Oldani, che definisce la chiamata di Harvard come un Oscar alla carriera. II racconto a tappe inizia nel 2003, quando dopo l'apprendistato nelle cucine di Marchesi e Ducasse, ha deciso di aprire il D'O a Cornaredo, alle porte di Milano. «Ho mangiato in tutti i ristoranti della zona per capire cosa mancava, dove potevo inserirmi. Ho puntato sull'accessibilità, un concetto diverso dal low cost».
Nella lezione viene dato grande risalto alla scelta dei prodotti diversi da un normale stellato («né caviale né aragosta, prerogativa fissa dei menu Michelin», scrivono i relatori), e al rapporto umano con il personale. «Lo considero uno dei capisaldi del mio lavoro: si inizia a lavorare alle 9 di mattina e non alle 6 come in altri ristoranti». Ad Harvard spiegherà il suo modello di business in dieci punti. La scelta del nome («breve e facile da ricordare»), l'accessibilità economica, la stagionalità dei prodotti («che genera accessibilità economica»), l'etica dei collaboratori, la convivialità all'italiana, il set up della tavola, l'elaborazione del concetto di «pop», la differenziazione del marchio con i nuovi progetti, la ricerca di mercato e la fidelizzazione dei clienti, «n riscontro continua ad arrivare proprio da loro: ieri sera ho avuto dodici persone a cena che hanno prenotato per la volta successiva Capita anche in altri ristoranti che i clienti desiderino tornare, ma solo da noi succede che lo facciano da sazi».
Del modello di business fanno parte anche cinque libri: l'ultimo ha venduto 20 mila copie. Paura di essere incompreso? «Se qualcuno ha una buona intuizione deve portarla avanti ed è giusto che sia pagato». Ma l'idea dei menu stellati e dei conti stellari è superata. «Non funziona più. Ducasse ha dato l'esempio con lo "Spoon", gente come me e Inaki Aizpitarte ha deciso di seguire quella via. L'esempio, questo l'ho imparato da Marchesi, rimane la più alta forma di insegnamento».