Quotidiano di enogastronomia, turismo, ristorazione e accoglienza
giovedì 06 marzo 2025  | aggiornato alle 04:04 | 111023 articoli pubblicati

La carne dei “forti” Storia e tradizioni del cinghiale

Nell’immaginario collettivo è facile che questa figura appaia come il protagonista di agguerrite cacce medioevali o lo si veda comparire adagiato su un letto di mirto, ben arrostito, portato dai servitori del castello su un grande tagliere e accolto dalle ovazioni di tutti i convenuti al simposio

 
30 novembre 2010 | 10:54

La carne dei “forti” Storia e tradizioni del cinghiale

Nell’immaginario collettivo è facile che questa figura appaia come il protagonista di agguerrite cacce medioevali o lo si veda comparire adagiato su un letto di mirto, ben arrostito, portato dai servitori del castello su un grande tagliere e accolto dalle ovazioni di tutti i convenuti al simposio

30 novembre 2010 | 10:54
 

Nel bestiario tradizionale di ogni italiano al cinghiale compete il posto del 'selvatico” nazionale per eccellenza. Coraggioso, pericoloso se attaccato, e ancor più temibile, se ferito, costituisce una preda ambita per il cacciatore che intenda mettere alla prova le proprie qualità cinegetiche, nonché la capacità di sostenere forti emozioni adrenaliniche. Anche la carne del cinghiale, come la sua caccia, è stata da sempre considerata, sia in Europa sia in Asia, di competenza del guerriero.

Nell'immaginario collettivo è invece facile che questa figura appaia come il protagonista di agguerrite cacce medioevali, inseguito da torme di cani, canai e cavalieri, o lo si veda comparire adagiato su un letto di mirto, e ben arrostito, portato dai servitori del castello su un grande tagliere e accolto dalle ovazioni di tutti i convenuti al simposio.

Anche in epoca romana questa risulta una vivanda molto ambita. Nel Satyricon di Petronio Arbitro (I sec. d. C.), il cinghiale occupa il posto d'onore tra le vivande servite alla cena del ricco romano Trimalcione, famoso per i suoi banchetti spettacolari nel vero senso della parola, come in questo caso, dove dal ventre aperto della bestia si libra un volo di tortore.

Nel Medioevo e nel Rinascimento, allo sfruttamento da parte della popolazione dei luoghi incolti, vero habitat del cinghiale, si sostituisce una graduale bonifica a favore dell'agricoltura, per la quale la sua presenza rappresenta una vera calamità, dato il suo insaziabile appetito e la devastazione in cui lascia i luoghi visitati. Così, pur restando intatta la sua fama cucinaria, diventa oggetto di una caccia accanita, e confinato in regioni come la Toscana, il Lazio, la Calabria.

Il cinghiale, che un tempo esisteva in Lombardia, diffuso sia in montagna sia nelle antiche foreste della pianura, è scomparso anche qui principalmente a cagione della caccia, quindi del disboscamento e dell'espandersi dei centri abitati. Di lui si hanno notizie sino alla metà dell'800, ma limitatamente alla valle del Ticino. La sua ricomparsa avviene negli anni ‘70, in territorio dell'Oltrepò pavese, probabilmente a causa dello spostamento di alcuni esemplari provenienti dalla Liguria e dalla provincia di Alessandria e di Piacenza, e per l'immissione a scopo di ripopolamento di soggetti allevati. Attualmente si può affermare che sia presente in tutto il territorio lombardo, e specificatamente per la provincia di Brescia, in Valle Sabbia e in Valle Canonica, ma anche in luoghi collinari.

Il primo dato certo, attestante che durante la preistoria a Brescia si cacciasse il cinghiale, è riscontrabile dai resti ossei di questa specie ritrovati nei luoghi delle abitazioni palustri del lago di Garda, frammisti a quelli di orso, lupo, castoro, bue brachyceros, capra hyrcus fossilis, cervo e cane, risalenti all'epoca dei metalli. Gli Etruschi, che hanno abitato anche la nostra provincia, cacciavano il cinghiale di notte o all'alba, e lo catturavano con reti, trappole varie e l'aiuto di ferocissimi cani.

Durante l'alto Medioevo, e soprattutto nella sua fase iniziale, in epoca della dominazione longobarda, non esisteva fondamentalmente una problematica inerente ai diritti di caccia, anche di quella 'grossa”, e la popolazione rurale bresciana poteva esercitarla senza vincoli sulle terre comuni, mentre se queste erano di proprietà, corrispondeva un tributo al nobile, sistema che risulta essere applicato già dal VI secolo. Le cose iniziano a cambiare dalla metà del VII secolo, quando il ceto dominante, laico ed ecclesiastico, avanza pretese su quelle parti di incolto, dette foreste, esistenti al di fuori dei centri abitati, di cui fruivano i contadini, e se ne appropria. è a questo punto che diventa usuale per i nobili esigere decime e canoni per la caccia, parimenti a quelle ottenute dalle attività agricole, silvo-pastorali e da ogni altra attività. A questo stato di cose pone fine Carlo Magno (768-814), che trova assolutamente necessario stabilirne un limite in uno dei suoi Capitolari, dove si indica il re come l'unico in diritto di dare concessioni in merito.

La nobile 'ars venandi” non era solo una passione da laici, nobili e non, ma si è accattivata anche quella dell'alto e basso clero. A Brescia più di un vescovo ha patito di smanie venatorie, valga per tutti il nobile Berardo Maggi, che a Vobarno 'deteneva una vera e propria signoria territoriale, basata sul potere del districtus e dell'honor, cioè del potere di costringere e della sovranità” (L. Pasini, La Corte Vescovile a Vobarno nel tardo Medioevo: organizzazione economica, Brescia, 1990).

I dogi di Venezia, parimenti a tutto il resto dell'alta aristocrazia menzionata, hanno usato l'attività venatoria come rappresentazione del proprio potere. Ogni anno tre erano le 'cacce generali” agli uccelli, guidate dal doge, seguito dai notabili veneziani, tutti coi cavalli, i loro cani, i falchi e gli altri rapaci. In queste occasioni, anche la divisione delle prede, operazione fortemente simbolica che implica la definizione e il rispetto di precise gerarchie fra i partecipanti alla battuta, era finalizzata ad affermare la superiorità signorile del doge. Di ogni cinghiale abbattuto, a lui spettavano la testa e le zampe, dei cervi le corna, simbolo di regalità. Quest'ultima norma viene ad essere indicativa di come il cervo e il cinghiale siano stati sin dall'alto Medioevo i trofei più ambiti.

Da allora e da sempre, le norme si sono succedute alle norme, ma la passione per la caccia a questo ungulato dalla forza dirompente, dal carattere iroso e dall'irrefrenabile sessualità, ha contagiato gli animi, accendendoli col desiderio della sfida, che qui a Brescia la sua 'stirpe di cacciatori”, partendo dalla preistoria, per arrivare ad oggi, ha lanciato. Pur non cacciando più per sopravvivere, pur se l'ambiente si è profondamente modificato, le specie si sono ridotte, le leggi adeguate, questo istinto è impresso nel Dna dei discendenti della 'leonessa d'Italia”.

Ma non solo il popolo bresciano può avere la presunzione di detenere nel proprio genoma questo 'marchio”. Un'altra stirpe può 'tenergli testa”, e la metafora non è casuale: di testa di cinghiale si tratta, del più ambito trofeo che un altro cacciatore, quello sardo, possa desiderare. Su sirboni, come suona maggiormente nella lingua isolana, conduce da tempo immemorabile una strenua lotta con il suo persecutore.

Decisamente più piccolo di quello diffuso nel continente europeo, questo tipo di cinghiale presenta altre diversità: snello, dai fianchi più stretti e dal grifo allungato, a questo suo aspetto ingentilito non fa corrispondere un carattere mitigato rispetto al cugino continentale, al contrario, dimostra essere ancor più selvatico e aggressivo: tutti caratteri che ha potuto mantenere inalterati e maggiormente ferini, data la condizione 'isolana”, protetta da ibridazioni.

Intorno alla sua figura la cultura sarda ha intessuto trame connesse alla religione e alla magia. Il suo corpo orrido ospiterebbe, secondo le credenze popolari, l'anima di un dannato altrettanto violento e sempre teso alla soddisfazione degli istinti più bassi, al contrario del cervo, che per essere bello e mite, sarebbe la rappresentazione di un'anima purgante già in prossimità del paradiso.

Ma dopo essersi misurati, testa a testa, e aver lottato ognuno con le proprie armi, il cacciatore, o meglio, i cacciatori, la cumpangia, detto alla sarda, la vincono spesso e, tolti i trofei, il corpo 'orrido” si trasforma, attraverso gli antichi rituali della cucina, nella 'carne dei forti”, dispensiera dei piaceri del palato, in Sardegna, come a Brescia.

Un antico tipo di arrosto della terra di Sardegna, ormai pressoché scomparso, è quello a 'carraxiu” in cui si scava una buca nel terreno, vi si mettono ad ardere legni odorosi, si copre con uno strato di foglie di mirto e si pone finalmente la bestia intera (vitello, cinghiale, capretto, muflone, oltre al porcello tipico) che va ancora ricoperta con mirto. Infine, si mettono i tizzoni ardenti che in un lunghissimo tempo cuoceranno la carne profumata. Una trionfale variante di questo arrosto corale e festivo è quella in cui al posto di un animale se ne mettono vari, l'uno dentro l'altro. è un'usanza antichissima del Nuorese, in particolare di Villagrande, e si chiama «malloru de su sabatteri». Un vitello viene sventrato e riempito con una capra selvatica a sua volta contenente un "porceddu", il quale racchiude una lepre che contiene una pernice e questa un uccello. Una specie di scatola cinese, in cui ogni animale va cucito con abilità: se ne incarica il ciabattino del paese. Questa tecnica di cottura ha probabilmente fornito l'idea ai cuochi della corte di Savoia (che si trasferì in Sardegna dal 1806 al 1814 sotto la pressione napoleonica) di una ricetta prelibata, il 'fagiano in cocotte”, cotto dentro un tacchino. La cottura del porco, all'aperto o nel camino della casa, è sempre cosa da uomini; nelle feste anzi è un onore riservato al più esperto e non è compito facile né leggero. Mentre tutta la famiglia si reca alla messa egli rimane al suo posto finché la carne è dorata e cotta a puntino.

Cinghiale al Cannonau

Ingredienti per 6 persone:
polpa di cinghiale kg 1,5
una bottiglia di Cannonau di Sardegna DOC
olio q.b.
prosciutto sardo tagliato a dadini
una cipolla, due carote, una costola di sedano, un ciuffo di prezzemolo, uno spicchio d'aglio
un piccolo peperoncino piccante macinato
un pomodoro secco
un paio di bacche di mirto
quattro olive sarde snocciolate e sminuzzate, capperi
sale

Preparare in una terrina una marinata con mezzo litro di Cannonau, mezza cipolla, una carota il sedano, il prezzemolo tutte finemente tagliuzzate e le bacche di mirto. Adagiare il cinghiale e lasciarlo marinare almeno dodici ore o anche meglio un giorno prima della cottura. Estrarre il cinghiale dalla marinata, asciugarlo e legarlo. Mettere in una casseruola l'olio, il prosciutto in dadi, la cipolla la carota e l'aglio finemente tritati, far soffriggere delicatamente. Aggiungervi le verdure scolate dalla marinata il peperoncino, il pomodoro secco far scaldare a fuoco vivace. Adagiare il cinghiale, rosolare per un paio di minuti tutte le parti e aggiungendo su ogni parte una presa di sale. Aggiungere le olive ed i capperi. Ricoprire con tutto il Cannonau, mettere il coperchio senza occludere, far raggiungere il bollore e lasciar cuocere a fuoco lento per almeno due ore e mezzo rigirando la carne ogni venti minuti circa. Estrarre la carne e tenerla in caldo da parte. Con il residuo di cottura si preparerà la salsa di guarnizione passando il tutto. Affettare la carne nel piatto di portata condire con la salsa.

Cinghiale al ginepro
Ingredienti per 4 persone:
750 g di filetto di cinghiale
40 g di lardo
1 l di vino rosso corposo
un bicchierino di brandy
½ bicchiere di olio d'oliva
50 g di burro
un cipolla
una carota
un rametto di timo
8 bacche di ginepro
qualche fogliolina di prezzemolo
2 foglie di alloro
sale, pepe

Tolgo i nervetti al filetto e lo lardello con le listarelle di lardo precedentemente strofinate col pepe. Lo pongo in una terrina, lo ricopro con il vino, unisco la carota e la cipolla a pezzetti, un po' di sale, tutti gli aromi e qualche grano di pepe. Lo lascio marinare per quattro ore, quindi lo sgocciolo e lo asciugo bene. Metto al fuoco un tegame delle dimensioni del filetto con il burro (tranne una noce) e l'olio, lo faccio scaldare, vi adagio il filetto, rosolandolo da ogni parte. Salo, pepo e aggiungo il brandy. Quando questo sarà evaporato, bagno con un mestolo della marinata e lo faccio cuocere, abbassando la fiamma e aggiungendo altra marinata, di tanto in tanto. Quando il filetto è cotto, lo tolgo dal recipiente, faccio restringere il fondo di cottura a fuoco vivo, lo tolgo dalla fiamma e vi incorporo una noce di burro. Adagio il filetto affettato nel piatto di portata, irrorandolo con il sugo di cottura.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
Voglio ricevere le newsletter settimanali


Manivia
Tinazzi
Tipicità
Italmill

Manivia
Tinazzi
Tipicità

Italmill
Horeca Expoforum