Marco Ambrosino è tornato a Napoli come si torna a un punto d'origine, dopo un lungo viaggio che gli ha offerto prospettive segnanti e durante il quale ha avuto modo di affinare quella che oggi è una filosofia gastronomica che va ben oltre il mero piacere del gusto. Al comando di Sustanza, ristorante al primo piano del suggestivo spazio di ScottoJonno, porta in scena una cucina che parla di popoli, di migrazioni, di un Mediterraneo crocevia di saperi, di memorie e di incontri. Ambrosino sa che il cibo non si limita al piatto: è un atto di condivisione che rielabora le identità, un gesto che trasmette valori, un linguaggio che parla di scambi, di cultura e di antropologia.
Ingredienti e tecniche affondano le radici in questa visione, che riporta l'attenzione sull'essenziale. Nella sua visione, cucinare significa osservare e reinterpretare le tracce lasciate da culture e civiltà, raccogliendo il patrimonio mediterraneo per trasformarlo in simboli, immagini e sapori capaci di restituire il senso profondo di un'identità collettiva. Non esiste un limite tra cucina e politica: Ambrosino fa del suo ristorante uno spazio di riflessione, un modo per stimolare domande, un punto di osservazione del nostro tempo.
Qui, nella Galleria Principe di Napoli, si compone una sorta di mappa di ingredienti che superano il ruolo decorativo per trasformarsi in rappresentazioni di storie e di paesaggi. Tutti gli elementi del menu custodiscono il valore della materia prima e la traducono in segni che si caricano di un significato antropologico. Il Mediterraneo evocato nel piatto è un territorio che non si chiude ma si apre, accoglie e intereseca, con un'idea di “meticciato” che riporta al centro la convivenza di identità diverse, senza barriere. La condivisione, infatti, per Ambrosino è molto più di una pratica conviviale: è un principio fondante, un modo per abbattere distanze e far riscoprire il valore della relazione attraverso la cucina.
Chef Ambrosino: «La cucina è politica perché riflette lo sviluppo e le interazioni tra popoli»
In questo viaggio, quello che si crea è uno spazio di riflessione che diventa uno specchio delle infinite possibilità di incontro tra passato e presente, un invito ad ascoltare le storie che il Mediterraneo ci ha lasciato in eredità, a vedere il cibo come veicolo di significati profondi.
Due anni a Napoli dopo molto tempo a Milano. Chi meglio di lei può parlarci delle differenze a livello di scena gastronomica?
In verità le differenze ci sono, ma non sono solo nel fare cucina o nella proposta dei ristoranti: Milano ha una velocità diversa, un senso di urgenza che a volte può essere positivo e altre volte può diventare un limite. A Milano spesso c'è una corsa per apparire, una tendenza a captare e sfruttare l'ultima moda anche senza approfondire davvero il significato di quella tendenza. Questo non toglie che ci siano delle proposte valide, ma si percepisce anche un certo affanno nel seguire tutto ciò che è nuovo. Napoli, invece, è un'altra cosa. Qui la tradizione è pesante, quasi ingombrante, e ha una risonanza fortissima nella percezione collettiva. A Napoli ci sono proposte contemporanee, innovative e molto valide, ma devono spesso fare i conti con una visione che rimane ancorata a una certa idea di tradizione. Credo che Napoli stia vivendo un momento di rinascita, di fervore autentico. C'è una "nuova Napoli" che sta emergendo, piena di visione e originalità, e merita di essere raccontata come tale.
Dunque, la cucina per lei è anche un modo di raccontare Napoli oggi, una sorta di atto politico…
La cucina è sempre stata un gesto che parla di dinamiche sociali. Non esiste una cucina pura, “italiana” nel senso tradizionale: tutto ciò che consideriamo parte della nostra tradizione è frutto di incontri, migrazioni, scambi. Questo vale per la dieta mediterranea, che non è solo un elenco di ingredienti ma è fatta di abitudini, modi di vivere, metodi di cottura. La cucina è politica perché riflette lo sviluppo e le interazioni tra popoli. Basti pensare che gran parte di ciò che consideriamo “locale” nasceva per necessità, non per scelta: i salumi, i formaggi, le conserve non erano altro che soluzioni per sfruttare al massimo le risorse disponibili. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale si è iniziato a scegliere davvero cosa mangiare. Ma prima ogni cosa - dalle colture ai prodotti agricoli della Campania - era condizionata da esigenze precise. Questo rapporto con il cibo, con il suo valore culturale e sociale, continua a essere per me un aspetto politico: cucinare significa confrontarsi con queste dinamiche e con il loro significato.
Quindi, chi siede alla sua tavola è in qualche modo coinvolto in un messaggio, una sorta di militante; non trova?
Direi di sì, una buona parte dei nostri clienti lo è, consapevolmente o meno. Ma il nostro lavoro di cuochi è rivolto a tutti. Non possiamo permetterci di escludere nessuno, e infatti cerchiamo sempre di bilanciare l'esperienza in modo che possa essere apprezzata da chiunque. Chi si siede al nostro ristorante può essere una coppia in cerca di una serata speciale o un appassionato di gastronomia che ha già una certa sensibilità verso il cibo. Il messaggio è valido solo se è universale. Se diventiamo escludenti, perdiamo qualcosa. Credo che un buon ristorante debba parlare un linguaggio accessibile, senza però compromettere la profondità dell'esperienza. Questo è il motivo per cui non voglio che il ristorante diventi un luogo esclusivo nel senso elitario del termine.
La Chiajozza, un piatto storico di chef Ambrosino
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Minestra di pasta e pane fermentato, nocciole, alici, olio mediterraneo
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Spaghetto cotto in un vino ossidativo, olio al ginepro e scorza di agrumi bruciati ed erbe aromatiche
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Parliamo del menu autunnale di Sustanza…
Nel menu autunnale ci sono piatti che rappresentano le stagioni come transizioni, una specie di rito che segna il passaggio tra estate e inverno. Prendiamo l'insalata: non è un'insalata semplice, è una composizione di prodotti freschi e conservati, che celebrano la stagionalità. I funghi trovano sempre uno spazio d'onore, così come la pecora, che torna in diverse preparazioni. Non ci limitiamo a scegliere solo ingredienti d'élite, sebbene la qualità sia fondamentale: è la trasformazione ciò che dà valore alla cucina. Prendere un prodotto perfetto e lasciarlo intatto è una scelta, ma per noi significa un'altra cosa. La nostra cucina si basa su un concetto di trasformazione; l'ingrediente diventa qualcosa di nuovo, a volte inaspettato.
Nel suo approccio si nota un'attenzione particolare verso l'utilizzo integrale delle materie prime. È corretto?
Sì, abbiamo un approccio che tende a evitare sprechi e a valorizzare ogni parte dell'ingrediente. Spesso lavoriamo con un unico pesce per realizzare diversi piatti, utilizzando anche parti che di solito verrebbero scartate. Ad esempio, con la pelle di un pesce facciamo una terrina, con la testa un'altra preparazione, e così via. Cerchiamo di dare un senso anche agli scarti, ma senza mai cadere nella trappola di usare scarti per il solo gusto di farlo. Mi chiedo sempre, se uso il gambo di un broccolo, dove va la testa? Il messaggio di sostenibilità non può essere uno slogan, deve rispecchiare un ragionamento logico e rispettoso dell'ingrediente.
Parliamo del suo pre-dessert, che il Gambero Rosso ha decretato il migliore dell'anno. È un piatto particolare, uno spaghetto. Un po' strano, non trova?
Lo spaghetto è una costante nei miei menù lunghi, da oltre dieci anni. Lo inserisco come penultima portata, per dare una pausa prima dei dessert. È uno spaghetto cotto in un vino ossidativo, condito con olio al ginepro, scorza di agrumi bruciata ed erbe aromatiche. Il concetto di ossidazione, che in teoria è un difetto tecnico, qui diventa un elemento di forza. L'ossidazione è interessante perché arricchisce di sfumature il piatto, e la scelta di utilizzare lo spaghettino aggiunge una componente simbolica: è un formato che, un tempo, si riservava ai malati. Questo spaghetto, con le sue note amare e balsamiche, serve a preparare il palato ai dessert. È un piatto di passaggio.
Chef Ambrosino (Sustanza): «La tavola mediterranea è storicamente un luogo di condivisione»
Anche il tema della condivisione a tavola è molto forte nella sua cucina.
La tavola mediterranea è storicamente un luogo di condivisione, e penso che riportare questo gesto anche in un contesto formale possa trasmettere un messaggio molto potente. Immagini di trovarsi in un ristorante elegante, dove gli ospiti in giacca e cravatta devono letteralmente sporcarsi le mani per prendere il cibo dal centro del tavolo. È un modo per creare un legame tra le persone, per rompere le convenzioni. La condivisione è un ingrediente, una parte del piatto stesso, che rende l'esperienza più autentica. Nel Mediterraneo, la tavola è un luogo di incontro e discussione, dove si parla e si vive il cibo in modo diverso rispetto ad altre culture.
Ci sono temi politici anche nella scelta degli ingredienti? Oggi si assiste spesso a una sorta di protezionismo sulla materia prima.
Io parlo di “meticciato mediterraneo.” In un certo senso, il Mediterraneo è una mescolanza di culture e tradizioni che si riflette nei suoi prodotti. Basta guardare all'agricoltura: i semi che viaggiano grazie al vento o agli uccelli migratori, o le tecniche sviluppate osservando la natura. L'identità di un ingrediente è importante, ma non deve diventare un limite. La chiusura verso le influenze esterne è una regressione, soprattutto oggi che viviamo in un'Europa già piccola di per sé. Conoscere le proprie radici serve per arricchire il quadro generale, non per creare barriere.
Come vede il futuro per i giovani chef?
Credo che i giovani abbiano ragione a mettere in discussione il modello attuale. Molti di loro non vogliono adattarsi a un sistema che sentono lontano dalle loro aspettative. Il mio obiettivo è creare un ambiente di lavoro dove chi arriva possa crescere e imparare qualcosa di nuovo. Non basta più fare un ristorante eccellente; per me è altrettanto importante creare un posto di lavoro eccellente. Innovazione non significa solo nuove tecniche o ingredienti, ma anche un nuovo modo di concepire il lavoro in cucina. Non servono più cucine-militari, ci vogliono ambienti che ispirino e rispettino chi ci lavora.
Il ristorante Sustanza
Tra i giovanissimi, qualcuno che ammira particolarmente?
Qui in Campania, un giovane che mi ha colpito è Domenico Marotta, un talento straordinario. Poi c'è Davide Guidara in Sicilia, chef dalla visione lucida e profonda. Ci sono anche figure che non sono più tecnicamente “giovanissimi” ma che hanno affrontato un'evoluzione importante. Penso, ad esempio, a Juri Chiotti, chef di “Reis - cibo libero di montagna”, a Chiot Martin, nel Cuneese. Juri è un vero visionario. Ha costruito una comunità attorno al suo ristorante, un sistema che va oltre la cucina. Questo è un esempio raro di ristorazione che diventa un progetto comunitario e all'interno del quale ogni dettaglio, dalla scelta dei prodotti alla gestione dei rifiuti, fino alla sensibilizzazione delle persone, contribuisce a rafforzare un modo di vivere condiviso. L'esperienza di Juri meriterebbe di essere conosciuta più a fondo, perfino insegnata nelle scuole, come modello di sostenibilità e di integrazione con il territorio.
Quindi, secondo lei, essere giovani non è di per sé un valore assoluto?
Esattamente. Essere giovani è un valore solo se si è capaci di percepire e comprendere il mondo che ci circonda. Non si può ridurre tutto all'età anagrafica. Molti giovani hanno una sensibilità particolare e sono in grado di captare nuove dinamiche, ma non basta essere giovani per essere innovatori. È una qualità che si può anche perdere con il tempo, se ci si distacca dalla realtà. Credo che viviamo in un'epoca in cui si tende a semplificare tutto, a ridurre le cose a categorie rigide, quando invece è fondamentale analizzare la complessità. Non è tutto così semplice, né tutto così complesso, ma serve una visione d'insieme.