Selvaggina e cacciagione. Due termini che solo apparentemente sono intercambiabili. Selvaggina indica la fauna selvatica e include quella da pelo (lepre, coniglio selvatico, cinghiale, maiale selvatico, daino, cervo, capriolo, camoscio ecc…) e quella da piuma (fagiano, anatra, pernice, quaglia, beccaccia ecc…). Per cacciagione invece si intende il prodotto dell’attività venatoria e comprende tutti gli animali commestibili che vivono liberi in natura, distinti in “animali da pelo” (mammiferi) e “animali da penna” (uccelli). In ambito gastronomico si usa spesso chiamare selvaggina gli animali da pelo, e cacciagione quelli da penna.
Fin dai tempi antichi, la selvaggina ha costituito una risorsa alimentare importante. Con il passare del tempo e la crescente sensibilizzazione nei confronti degli animali, la selvaggina ha perso progressivamente di valore. La caccia è stata sostituita dall’allevamento e la figura del cacciatore professionista scomparsa.
Selvaggina, carni “nere” saporite e ricche di proteine
Selvaggina e cacciagione hanno tutte carni dal colore scuro e vengono classificate come carni nere: generalmente sono saporite, nutrienti e magre con interessanti caratteristiche nutritive, povere di grassi e ricche di proteine. Tutto questo perché sono animali che mangiano quello che offre solo il bosco.
Selvaggina e cacciagione hanno tutte carni dal colore scuro e vengono classificate come carni nere
Nella cucina moderna sono poco usate per la minore reperibilità del prodotto rispetto al passato e per il sapore intenso che necessita una adeguata frollatura che può variare secondo razza e dimensioni dell’animale e a volte anche dalla stagione o da una marinatura con vino ed erbe aromatiche prima della cottura.
Selvaggina, carne per lo più “stagionale”
Queste carni, che nella cucina classica avevano un ruolo di primo piano, sono diventate un ingrediente usato quasi esclusivamente nell’ambito delle cucine tradizionali in alcuni periodi dell’anno. Si iniziano a vedere tranci di selvaggina anche nella grande distribuzione, e sempre più spesso alcune specie vengono allevate. Alcune carni vengono poi anche trasformate in salumi e insaccati, si pensi al prosciutto di cervo, alla mocetta di camoscio o al salame di cinghiale. Una carne che sta rientrando nelle cucine dei grandi chef.
La selvaggina secondo chef Corelli, Palluda e Sormani
Igles Corelli è stato tra i primi a sdoganare la selvaggina nelle cucine dell’alta ristorazione ed ha portato la sua esperienza a Cibo selvaggio, l’unico evento italiano dedicato al cibo di caccia d’autore che si è svolto a Foligno (Pg). In Piemonte, nei dintorni di Torino, Idealcarni è il primo centro certificato dalla Regione Piemonte, che lavora selvaggina proveniente da abbattimenti selettivi dei parchi piemontesi.
Igles Corelli è stato tra i primi a sdoganare la selvaggina nelle cucine dell’alta ristorazione
Insolite le proposte di Davide Palluda, chef stellato dell’Enoteca di Canale, che ha in menu Daino, uva, whisky torbato e cacao fermentato (molto richiesto dalla clientela) a cui si è aggiunta la Cialda soffice di mandorla, capriolo battuto al coltello, ricci di mare e tartufo bianco dall’Alta Val Formazza. Alla Locanda Walser Schtuba di Riale (Vb) lo chef Matteo Sormani propone una cucina creativa secondo la tradizione walser, in collaborazione con piccoli produttori del territorio e materie prime locali. Ed è tra i promotori della “Filiera eco-alimentare” per la selvaggina in Alta Val d'Ossola, progetto nato per rispondere in modo sostenibile allo spreco, ovvero la perdita dei capi cacciati spesso buttati perché mal conservati. Il progetto prevede corsi di formazione per una filiera controllata dell’animale selvatico, dal cacciatore al macellaio al ristoratore. Nel menu di Sormani ci sono così piatti creativi come il cervo, aglio orsino e limone, il cinghiale asparagi e sedano rapa, il cervo in 4 passaggi che propone tagli come fegato, spalla, controfiletto e stinco, oltre alle mocette di cervo e cinghiale e carni di camoscio e capriolo.