Quanto conta il marchio: i ristoratori scelgono vini storici
Secondo una ricerca di Nomisma i ristoranti in tempi di difficoltà prediligono inserire nella propria wine list brand noti e di lungo corso. Denominazioni e buone recensioni sulle guide vengono dopo
02 novembre 2020 | 19:13
La storia di un marchio fa la differenza in un periodo di crisi. È vero che in un mercato sempre più libero, aperto, concorrenziale e internazionale l’offerta è ampia e l’acquisto dei consumatori è ogni giorno sempre più critico. Ma è anche vero che affidarsi alla solidità di un’azienda nei momenti precari sembra essere sempre una buona scelta. Lo è peri ristoratori nel momento in cui devono stilare la wine list e scegliere dunque i marchi da inserire. Lo dice un’indagine di Nomisma Wine Monitor che evidenzia come l’84% dei ristoratori abbia ammesso di affidarsi ai marchi storici; le guide e la denominazione arrivano successivamente.
«Il brand - afferma il professor Piero Mastroberardino, presidente dell’Istituto Grandi Marchi - gioca un ruolo importante per diverse ragioni, in primo luogo perché è un indice di affidabilità, e in un momento di così grande incertezza il cliente probabilmente ritiene opportuno adottare un approccio più prudenziale al processo d’acquisto. Inoltre ai brand noti è spesso associato un più elevato tasso di rotazione, che in una fase come questa è importante sia per la sua capacità di restituire efficienza in linea generale alla gestione, sia perché riduce il rischio di ritrovarsi un invenduto in cantina di un ristorante nell’ipotesi malaugurata di improvvisi provvedimenti restrittivi dell’operatività».
Lo studio, sulla scia degli approfondimenti realizzati negli anni passati nell’ambito della collaborazione tra l’Istituto Grandi Marchi e Nomisma Wine Monitor, quest’anno si è concentrato sulle evoluzioni del mercato italiano ai tempi della pandemia, in particolare sui consumi di vino fuori-casa attraverso una doppia indagine: sui ristoranti e sugli Italiani che acquistano/consumano prevalentemente vino al di fuori delle mura domestiche.
Una prima anticipazione della ricerca relativa all’indagine sui ristoranti (124 coinvolti fino alla scorsa settimana), ha messo in luce come - prima dell’ultima stretta imposta dal Governo per arginare la diffusione dei contagi - il coronavirus avesse “piegato ma non spezzato” la ristorazione italiana, con circa un terzo degli intervistati che addirittura prevedeva un forte recupero delle vendite di vino, superiore ai valori del 2019, contro un 50% che comunque stimava un analogo livello (e quindi solo un 17% che vedeva “nero”).
Certo, la pandemia e il lockdown hanno comunque lasciato il segno. Per rispondere alle restrizioni imposte di sicurezza sanitaria, solamente il 23% dei ristoranti intervistati ha potuto riaprire prima dell’estate mantenendo la medesima capacità operativa del pre-lockdown. Tutti gli altri hanno dovuto rinunciare a coperti e posti a sedere (vale a dire il rimanente 77% dei ristoranti intervistati, con il 12% costretto a una riduzione del 50%) e anche dal punto di vista organizzativo le modifiche sono state sostanziali, dagli investimenti nella formazione sulle nuove norme igienico-sanitarie (55% degli intervistati) al minor impiego di personale (40%) fino a cambiamenti anche nei menu e nella wine list (20%). In questo caso specifico a farne le spese sono stati soprattutto i vini stranieri proposti in carta (il 23% dei ristoranti ha ridotto o addirittura eliminato le etichette estere proposte). Al contrario, i vini locali e/o dello stesso territorio del ristorante, sono quelli ad aver subito “tagli” meno drastici, con l’11% dei rispondenti che ha dichiarato di avere addirittura aumentato il numero di tali referenze in carta.
Nel complesso, e fino alla settimana scorsa, il saldo nelle vendite di vino dei ristoranti intervistati evidenziava segno negativo (inteso come differenza tra coloro che hanno dichiarato aumenti e quelli che invece hanno subito diminuzioni nelle vendite), dovuto principalmente alla riduzione della clientela (il 36% giustificava tale calo con la già citata riduzione dei posti a sedere).
Una variazione che ha inevitabilmente comportato impatti sui produttori di vino: il 28% dei ristoratori ha dichiarato di aver ridotto il numero dei fornitori abituali (contro un 61% di chi li ha mantenuti costanti); e se nel 2019 il 68% dei ristoranti effettuava gli acquisti di vino mediamente ogni settimana/mese, con la pandemia tale frequenza è arrivata ad interessare un minor numero di titolari (il 55%).
Infine, sui trend che si consolideranno nel settore nei prossimi anni, si riscontrano molte analogie con quanto sta accadendo nella società civile e nei principali settori economici. D’altronde, non poteva essere altrimenti. «Tra i principali cambiamenti indotti dal coronavirus, e che si manterranno anche nei prossimi anni, figura la digitalizzazione, considerata soprattutto in ambito promozionale e gestionale (dalla presenza sui social network alle modalità di prenotazione on-line fino ai rapporti con i fornitori): lo dichiara un ristoratore su quattro, accanto ad una gestione più efficiente degli spazi», evidenzia Denis Pantini, responsabile Nomisma Wine Monitor.
Ma più di tutte, questa pandemia dovrebbe lasciare negli italiani una maggior consapevolezza riguardo al valore che la ristorazione esprime, sia in termini di qualità dei cibi e dei vini offerti che dei risvolti socioeconomici che lo stesso settore produce sull’intera filiera agroalimentare. Questo almeno era il convincimento del 65% dei ristoratori intervistati, prima dell’ultimo Dpcm che ha introdotto ulteriori restrizioni nelle attività dei pubblici esercizi.
Evidentemente a questo punto resta da capire come evolverà, forse già nelle prossime ore, la situazione di un canale - quello on-trade - che, va ricordato, incideva fino all’anno scorso per circa un terzo sulle vendite a volume di vino nel nostro Paese.
Al ristorante vince il brand
«Il brand - afferma il professor Piero Mastroberardino, presidente dell’Istituto Grandi Marchi - gioca un ruolo importante per diverse ragioni, in primo luogo perché è un indice di affidabilità, e in un momento di così grande incertezza il cliente probabilmente ritiene opportuno adottare un approccio più prudenziale al processo d’acquisto. Inoltre ai brand noti è spesso associato un più elevato tasso di rotazione, che in una fase come questa è importante sia per la sua capacità di restituire efficienza in linea generale alla gestione, sia perché riduce il rischio di ritrovarsi un invenduto in cantina di un ristorante nell’ipotesi malaugurata di improvvisi provvedimenti restrittivi dell’operatività».
Lo studio, sulla scia degli approfondimenti realizzati negli anni passati nell’ambito della collaborazione tra l’Istituto Grandi Marchi e Nomisma Wine Monitor, quest’anno si è concentrato sulle evoluzioni del mercato italiano ai tempi della pandemia, in particolare sui consumi di vino fuori-casa attraverso una doppia indagine: sui ristoranti e sugli Italiani che acquistano/consumano prevalentemente vino al di fuori delle mura domestiche.
Una prima anticipazione della ricerca relativa all’indagine sui ristoranti (124 coinvolti fino alla scorsa settimana), ha messo in luce come - prima dell’ultima stretta imposta dal Governo per arginare la diffusione dei contagi - il coronavirus avesse “piegato ma non spezzato” la ristorazione italiana, con circa un terzo degli intervistati che addirittura prevedeva un forte recupero delle vendite di vino, superiore ai valori del 2019, contro un 50% che comunque stimava un analogo livello (e quindi solo un 17% che vedeva “nero”).
Certo, la pandemia e il lockdown hanno comunque lasciato il segno. Per rispondere alle restrizioni imposte di sicurezza sanitaria, solamente il 23% dei ristoranti intervistati ha potuto riaprire prima dell’estate mantenendo la medesima capacità operativa del pre-lockdown. Tutti gli altri hanno dovuto rinunciare a coperti e posti a sedere (vale a dire il rimanente 77% dei ristoranti intervistati, con il 12% costretto a una riduzione del 50%) e anche dal punto di vista organizzativo le modifiche sono state sostanziali, dagli investimenti nella formazione sulle nuove norme igienico-sanitarie (55% degli intervistati) al minor impiego di personale (40%) fino a cambiamenti anche nei menu e nella wine list (20%). In questo caso specifico a farne le spese sono stati soprattutto i vini stranieri proposti in carta (il 23% dei ristoranti ha ridotto o addirittura eliminato le etichette estere proposte). Al contrario, i vini locali e/o dello stesso territorio del ristorante, sono quelli ad aver subito “tagli” meno drastici, con l’11% dei rispondenti che ha dichiarato di avere addirittura aumentato il numero di tali referenze in carta.
Nel complesso, e fino alla settimana scorsa, il saldo nelle vendite di vino dei ristoranti intervistati evidenziava segno negativo (inteso come differenza tra coloro che hanno dichiarato aumenti e quelli che invece hanno subito diminuzioni nelle vendite), dovuto principalmente alla riduzione della clientela (il 36% giustificava tale calo con la già citata riduzione dei posti a sedere).
Una variazione che ha inevitabilmente comportato impatti sui produttori di vino: il 28% dei ristoratori ha dichiarato di aver ridotto il numero dei fornitori abituali (contro un 61% di chi li ha mantenuti costanti); e se nel 2019 il 68% dei ristoranti effettuava gli acquisti di vino mediamente ogni settimana/mese, con la pandemia tale frequenza è arrivata ad interessare un minor numero di titolari (il 55%).
Infine, sui trend che si consolideranno nel settore nei prossimi anni, si riscontrano molte analogie con quanto sta accadendo nella società civile e nei principali settori economici. D’altronde, non poteva essere altrimenti. «Tra i principali cambiamenti indotti dal coronavirus, e che si manterranno anche nei prossimi anni, figura la digitalizzazione, considerata soprattutto in ambito promozionale e gestionale (dalla presenza sui social network alle modalità di prenotazione on-line fino ai rapporti con i fornitori): lo dichiara un ristoratore su quattro, accanto ad una gestione più efficiente degli spazi», evidenzia Denis Pantini, responsabile Nomisma Wine Monitor.
Ma più di tutte, questa pandemia dovrebbe lasciare negli italiani una maggior consapevolezza riguardo al valore che la ristorazione esprime, sia in termini di qualità dei cibi e dei vini offerti che dei risvolti socioeconomici che lo stesso settore produce sull’intera filiera agroalimentare. Questo almeno era il convincimento del 65% dei ristoratori intervistati, prima dell’ultimo Dpcm che ha introdotto ulteriori restrizioni nelle attività dei pubblici esercizi.
Evidentemente a questo punto resta da capire come evolverà, forse già nelle prossime ore, la situazione di un canale - quello on-trade - che, va ricordato, incideva fino all’anno scorso per circa un terzo sulle vendite a volume di vino nel nostro Paese.
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Alberto Lupini
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