Ricerca e semplificazione La pasticceria secondo Tortora
Nel 2017 ha dato vita al suo progetto AT Pâtissier, che continua a portare avanti con entusiasmo con l’obiettivo di offrire grandi lievitati italiani caratterizzati da una fresca eleganza contemporanea . Tra le sue recenti collaborazioni, quella con Algida per la realizzazione di un Cornetto “gourmet” in edizione limitata
11 luglio 2020 | 06:50
di Nadia Afragola
Andrea Tortora
Chi è Andrea Tortora oltre ad essere un pasticcere?
L’ho scoperto stando in quarantena. O meglio, ho riscoperto parti di me che avevo lasciato da parte a causa dei ritmi frenetici. Mi sono ritrovato a diversificare le mie giornate al di là del lavoro, ho ricominciato a leggere in maniera più assidua, a studiare, a riprendere vecchi libri di tecnologia alimentare che non aprivo dai tempi dell’alberghiero. In un certo senso sono ripartito da lontano. Ho ripreso le ricette più semplici, quelle che si fanno normalmente a casa, e ho ritrovato la passione per impasti che facevo 10 anni fa. La mia quarantena è stata un salto nel passato, che mi servirà per affrontare meglio il futuro.
Che differenza c’è tra un pasticcere e un pastry chef?
Si può sintetizzare dicendo che il pasticcere lavora nel suo laboratorio, con le sue tempistiche, mentre il pastry chef è colui che si muove all’interno di un ristorante, deve fare i conti con una brigata (di cui fa parte), con le sue regole e il suo rigore. Un pastry deve preparare un dolce in 3 minuti, perché un percorso degustazione ha le sue tempistiche. Da questo punto di vista è un’evoluzione della pasticceria. Sono due modi di lavorare diversi. Il pastry chef ad esempio non deve preoccuparsi della durevolezza delle sue preparazioni, non deve costruire una vetrina e fare in modo che i suoi dolci durino 2 giorni, proprio perché vanno consumati immediatamente dal cliente seduto al tavolo. La pasticceria invece ha nella sua matrice il take away: i clienti entrano, acquistano e non consumano subito il dolce.
Quindi lei è un pastry chef?
Sì, teniamo conto però che un grande pasticcere difficilmente digerisce le dinamiche serrate e rigorose di un ristorante e del suo chef.
Cosa rappresenta il successo per lei?
È uno step che si raggiunge come conseguenza di un lavoro svolto e che dipende dalla qualità del proprio operato. Il successo è di due tipi: economico e di fama. Io penso di essere a metà tra queste due facce della stessa medaglia; ho una professione, la faccio al meglio delle mie possibilità e sono riconosciuto da molti per le mie capacità. È un percorso naturale quello che ho fatto, e così deve essere. Inseguire la notorietà senza un progetto solido alle spalle può portarti in alto, ma il rischio è di farsi molto male se si cade a terra.
Il Cornetto Algida "firmato" da Andrea Tortora
Come è nato il “suo” Cornetto Algida?
Mi hanno cercato un anno fa. Ai tempi stavano portando a termine la collaborazione con Isabella Potì, e stavano gettando le basi per il futuro di Algida. La ricetta è figlia di sei mesi di prove insieme ad un team di tecnologi alimentari, che hanno una conoscenza molecolare della materia prima. Non volevo stravolgere un prodotto che ha 60 anni di storia e che accompagna gli italiani da sempre. C’è una storicità importante, è quasi un simbolo, non si parla solo di sapori o abbinamenti. Ho lavorato sul gusto acido e amaro per compensare il sapore finale del Cornetto, andando a togliere quella nota marcata di dolcezza tipica. La panna è quella di sempre: non aveva nessun senso metterci mano. Non è stato per niente facile. Questa versione del Cornetto sarà una limited edition, avrà un costo leggermente più alto del solito, ma resterà comunque abbordabile e assolutamente al di sotto del prezzo medio di una gelateria artigianale.
Quindi prende il posto di Isabella Potì?
Così sembrerebbe. Ma dopo di me qualcun altro prenderà il mio posto, è una ruota. Aziende coma Algida uniscono ricette di alta qualità a personaggi mediaticamente appetibili. E il ciclo prevede che ogni anno il progetto si rinnovi con nuovi volti.
Cosa vuol dire essere un pasticcere oggi in Italia, ai tempi del coronavirus?
Come ogni attività, anche la nostra deve evolversi, e dal mio punto di vista l’arma vincente sarà proprio il “saper fare” tipico del nostro Paese. È necessario puntare su quelle capacità che ci rendono famosi nel mondo, come il servizio sartoriale, la personalizzazione, l’unicità. La pandemia ha messo in ginocchio quasi tutti i settori, compreso quello della ristorazione. Il 10% chiude, il 50% è in grande sofferenza, e tutte le attività che prima dell’avvento del Covid-19 erano già allo stremo delle forze non arriveranno alla fine dell’estate. Il problema non è la voglia di lavorare, ma a chi venderemo, chi sarà il nostro cliente. Oggi per riavviare un’attività bisogna raggiungere il 75% del proprio volume d’affari, altrimenti non c’è guadagno.
Canederlo Giuanduia (foto: Giovanni Panarotto)
Dal punto di vista imprenditoriale in che modo si muoverà il mercato?
La parola d’ordine sarà sicurezza, il mercato si muoverà di conseguenza. Aumenteranno le dotazioni, i dispositivi, si consumeranno più guanti e mascherine. Bisognerà fare i conti con la paura, lecita, sia dei clienti che dei collaboratori stessi. Il che porta a una diminuzione del fatturato. A Pasqua, ad esempio, nonostante fossimo operativi con il delivery, non c’era il clima e lo spirito giusto per fare un buon lavoro, così abbiamo deciso di rinunciare ad una parte importante del fatturato in favore di una serenità collettiva. È lì che ci siamo accorti che qualcosa stava cambiando, nel modo stesso di percepire il lavoro. Poco prima del lockdown non mi curavo della pandemia. Ero sempre in giro per definire nuove collaborazioni e consulenze. Ci ho messo parecchio per prendere le misure di quello che stava accadendo.
Come avete riorganizzato il vostro lavoro?
Abbiamo messo da parte il punto vendita per concentrarci sul delivery, affinché venisse fatto nel modo migliore; contestualmente mi sono dedicato a video-corsi e a lezioni in webinar. Ho rimescolato le mie carte, cercando di giocare al meglio questa mano. Sono convinto che la gran parte delle chiusure (sul lago di Garda parliamo del 60%), siano dovute alla stretta relazione della nostra economia con il mercato estero. Per uscire da questo periodo buio dobbiamo ripartire da noi, come popolo, come italiani. Dobbiamo sostenerci e puntare sulle nostre materie prime, sulla nostra clientela. Non ho mai fatto del Made in Italy una bandiera, eppure i miei prodotti sono quasi interamente realizzati con ingredienti nazionali. Questo è un vantaggio quando non è possibile importare dall’estero, perché si riesce a mantenere inalterata l’alta qualità del prodotto senza deludere le aspettative dei clienti. Mi tornano in mente gli insegnamenti di mia mamma e di mia nonna, che mi hanno sempre spinto a valorizzare quello che abbiamo.
Foresta Nera (foto: Daniel Töchterle)
A chi vendete?
A chiunque ami un buon dolce. La mia clientela è per il 60% italiana e per il 40% estera. I Paesi europei dove esporto di più sono Austria, Germania, Inghilterra e Francia. Ultimamente stiamo lavorando bene anche con l’area scandinava. La richiesta da parte dell’estero dei prodotti di pasticceria italiana è molto forte, ed è dovuta alla nostra tradizione e cultura dei lievitati. La qualità delle nostre produzioni nazionali è ormai un fatto riconosciuto. Basti pensare al Panettone o alla Colomba, che io ho rivisitato e trasformato nel mio “Uovo di Tortora”. Personalmente poi sono favorevole alla destagionalizzazione di certe ricette tipiche. Perché relegare ad un così breve periodo dell’anno lievitati così eccezionali come il Panettone?
Il futuro che contorni ha?
Quello che questa pandemia ci ha insegnato è che bisogna puntare sulla versatilità. Ed è quello che sto provando a fare, cerco più sbocchi, cerco di differenziare il mio lavoro, il modo di promuoverlo. Bisogna essere dinamici per arrivare pronti alla prossima emergenza, sperando che non si presenti mai.
In che direzione va la pasticceria?
Da un lato va verso la semplificazione, dall’altro sicuramente c’è una crescente attenzione verso le esigenze alimentari dovute ad allergie, intolleranze o diete specifiche, a causa di una richiesta sempre più alta da parte del mercato stesso. Anche i nomi più importanti della pasticceria si stanno aprendo a ricette con farine particolari o senza l’uso di zuccheri. Io sto nel mezzo: né troppo radicale né troppo conservatore.
Raviolo di cachi e mandarino (foto: Giovanni Panarotto)
Come nasce un nuovo dolce?
Io parto sempre dall’ingrediente, e intorno a quello costruisco tutto il dolce. L’ispirazione può venire tra i banchi del mercato, visitando un’azienda agricola, sentendo un profumo o rimanendo colpiti da un colore o da una forma. Tocco, annuso, mi appassiono. Poi la tecnica e la ricetta finale sono fattori complementari. Quello che è essenziale per me è proprio la prima fase di ricerca. È lì che nasce tutto.
Vanno di moda i dolci in 3D. Progettate digitalmente anche voi?
Quando si parla di innovazione penso che tutto sia concesso. Il che però non significa che sia concesso a tutti. Io non penso che prenderò in considerazione l’ipotesi, se non per una prova. Trovo la stampa 3D asettica, impersonale, fredda. Non potrei rimanere soddisfatto dal lavoro di una macchina. Credo ancora troppo nel valore del capitale umano, delle sue mani e della sua testa.
La pasticceria francese è la migliore al mondo?
I francesi sono ineccepibili nella tecnica, invidiabili nella politica di costruire una rete, molto bravi a “fare squadra”.
Per informazioni: www.andreatortora.com
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