Primi giorni dell'anno nuovo ed è tempo di tendenze. Valenti opinion makers e altrettanto valenti opinion leaders (sono insiemi che si tangono ma che non si sovrappongono più di quel pochino denominato “overlapping”) avvertono il dovere deontologico di oracolare le tendenze dell'anno che verrà. Melanconicamente avvertiamo che il “cogliere le tendenze in atto” abbia innesco da contingency piuttosto che da cristallina vision. La contingency a cui facciamo riferimento è cagionata dal clangore mediatico abilmente pilotato dall'entourage del ministro Matteo Salvini circa la severità delle norme del nuovo Codice della strada e, per esse, alla demonizzazione del consumo di vino al ristorante. Una circostanza che può essere trasformata in opportunità per i ristoranti.
Codice della strada, cosa cambia davvero?
Apriamo non breve parentesi per capire correttamente in cosa consistono queste norme del nuovo Codice della strada. Invariati sono i limiti per porsi alla guida e le relative modalità di rilevazione. A cambiare sono le multe e le sanzioni per chi si mette alla guida con un tasso alcolemico superiore a quello consentito, se si tratta di soggetto recidivo. La domanda diviene: “Quanto si può bere per non sforare la soglia di 0,5 g/l e non incappare in sanzioni?”.
Stando a quanto stabilito nel Codice, sia prima che dopo la riforma, chi viene trovato alla guida con un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi di alcol per litro di sangue viene punito con una multa da 543 a 2.170 euro più la sospensione della patente da tre a sei mesi. Tra 0,8 e 1,5 grammi per litro scatta invece l'arresto fino ai sei mesi, oltre che la multa da 800 a 3.200 euro e la sospensione della patente da sei mesi a un anno. Per chi supera 1,5 grammi per litro, multa da 1.500 a 6.000 euro, arresto da sei mesi a un anno e sospensione della patente da uno a due anni. Qui chiudiamo l'opportuna parentesi. Insomma, piove sul bagnato.
Il Codice della strada e la caduta del consumo di vino: che fare?
La caduta tendenziale del consumo di vino è fatto innegabile di cui si è già scritto: diverse le concause, non ultima tra queste la disaffezione da parte delle giovani generazioni che mal tollerano una liturgia del bere e del sapere che ha permeato per troppi anni l'approccio al vino. Adesso a questa caduta tendenziale, e quindi di termine medio e lungo, aggiungiamo il fattore contingente, e quindi di termine breve, del terrore dei controlli delle forze dell'ordine che nell'immaginario collettivo vediamo sadicamente appostate all'uscita dei ristoranti.
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E come si affronta il fenomeno? I ristoratori con locali “fuori porta” praticamente irraggiungibili se non con auto propria, stanno adottando tardivamente, vivendo ciò come espediente tattico e non come atto strategico, l'adozione del wine bag. Il patto è: tu cliente la bottiglia me la ordini, te la metto in conto e me la paghi; se non la bevi tutta, vedi quanto sono generoso (?), ti consento di portartela via e addirittura, ma sì, ti ci metto sopra il tappo quello giusto e ti do anche il “bag”, il sacchettino atto a contenere la bottiglia. Si fa da decenni quasi ovunque nel mondo. Negli Usa è praticamente la norma (in America lo è anche per il cibo) e qui da noi dobbiamo considerare “illuminato” e “generoso” il ristoratore che a ciò, seppure riottosamente, si sta adeguando. Ancora una volta, cruccia dirlo, non si sta cogliendo l'occasione di capovolgere la minaccia in opportunità.
Codice della strada e wine bag
Riflettiamo insieme. Sia come sia, facendo i giulivi e dimenticandoci che l'azione è vissuta come mero espediente tattico, il cliente si sta abituando a portarsi sia la wine bag. Ecco, e lo facciamo uscire dal ristorante con una bottiglia già mezza vuota? Cosa ci vuole a dirgli: e se una volta a casa, quando la metti in tavola domani, ti accorgi che non ti è bastevole? Almeno un'altra ti ci vuole: metti che arriva l'ospite inatteso e si tratta di aggiungere un posto a tavola. Prenditi anche una bottiglia intera e me la paghi non quanto leggi in carta, bensì quel prezzo che leggi in carta diminuito di tot euro (valore fisso, non percentuale). In pratica, a momenti me la paghi quanto in enoteca. Ma su quel “a momenti” dobbiamo riflettere approfonditamente.
Portati la wine list a casa, che poi è così facile, la trovi sul sito e te la scarichi, e così, adesso che sai che il take away ha prezzo inferiore di tot euro a bottiglia, indipendentemente dal fatto che tu venga qui a cena o meno, puoi ordinarmi le bottiglie che vuoi e passi a prendertele in giorno e orario convenuto. Il ristoratore che amplia il suo offering erogando servizio che va oltre il combinato di cucina e sala. Funziona? Sì, che funziona. Ma come e quanto potrebbe e dovrebbe funzionare in maniera soddisfacente per tutti? E rieccoci all'“a momenti”. Non ci giriamo intorno a veniamo al punto cruciale: non è più tollerabile, ai fini dell'andamento profittevole dell'impresa, che il ristoratore continui a considerare un'astuzia di cui andare fiero, una rendita di posizione alla quale sarebbe da stolto rinunciare, la computazione del pricing della wine list ragionando a “moltiplicato per” piuttosto che ad “addizionato a”.
Ristoranti, dal wine bag al take away
Insomma, stante il rigo di fattura della singola bottiglia, a quell'importo addiziono un tot euro, ma non è che quell'importo lo moltiplico per due, o per tre, ma anche, chi ce lo impedisce, per quattro o per cinque. Diminuisce il guadagno sulla singola bottiglia, ma è ragionevolmente certo che aumenti il billing complessivo della voce “vino” e il valore complessivo dell'incoming. Vendo più bottiglie, faccio un pairing appropriato con le pietanze a beneficio della soddisfazione complessiva del cliente e lo abituo, adesso che al wine bag si è assuefatto, anche a comprare vino da me per suo consumo in tempo e luogo differito: il take away, insomma. La riga di totale del suo scontrino diminuisce, pertanto verrà da me più di frequente e, fattore assolutamente da non sottovalutare, racconterà tutto ciò agli amici, sui social. Auspichiamo che ciò divenga tendenza, essa ampliandosi anche all'offering del meal kit: portarsi a casa gli ingredienti “buoni e giusti”, istruzioni per l'uso incluse, per rifare a casa quella pietanza che ci ha particolarmente intrigato.
Ristoranti, c'è offering e offering
Riflessione ulteriore: e se il ristoratore ampliasse il suo offering? Qui mandiamo ai matti, come suole dirsi. Ma se così tante volte si è osato consigliare (soprattutto alle pizzerie) di decrementarlo questo offering: minor numero di pizze in carta, sfoltimento delle pietanze nel menu (magari con maggiore coerenza rispetto ai cicli delle stagioni), e adesso, in palese quanto incomprensibile contraddizione, si suggerisce di incrementarlo? Sì, vi è coerenza e lo si asserisce con garbata forza, in quanto di altro offering si parla. Un ristorante inteso come layout ha sua superficie (ovvietà) e anche sua cubatura (ovvietà anch'essa?). Laddove i metri quadri, buoni a capire quanti tavoli, quante sedute ci stanno. E i metri cubi? Non badare solo al pavimento, insomma, bensì anche alle pareti: ragionare in verticale oltre che in orizzontale. Ampliamento dell'offering pensando, quindi, al potenziale del “verticale”. Pareti attrezzate con idonei scaffali onde proporre, tra quelli adoperati in cucina, cibi in vendita. Ma andare oltre il food e pensare a tools di cucina il cui reperimento nei negozi, siano pure negozi specializzati, è difficoltoso.
Usciamo dal concetto “spazio” ed esploriamo il concetto “tempo”. È spreco che diviene insostenibile continuare a far “lavorare” il layout solo, all'incirca sei ore al giorno. Se solo si riflettesse al fatto che l'affitto del locale lo si paga per le ventiquattro ore giornaliere. Cosa fare negli orari che esulano dagli slot canonici del pranzo e della cena? Corsi di cucina? Degustazioni di formaggi ? Di salumi ? Di oli? Reading di novità editoriali inerenti alla cultura gastronomica? Incontri con produttori? C'è tanto da poter fare, posto che lo si voglia, posto che si sappia farlo e in questo fabbisogno di know-how suppletivo non vi dovrebbe essere remora alcuna nel giovarsi di competenze esterne.
Ristoranti, l'avvento dei d&b
C'è anche un altro aspetto da considerare: il grande valore aggiunto che sempre di più assume la presenza di poche confortevoli camere nel plesso (o nelle immediate adiacenze) del ristorante. Vantaggio indubbiamente grande i cui benefici il cliente gourmet sa molto apprezzare: si cena molto più rilassati, ci si consente il calice in più, non c'è il pericolo di essere fermati dalle forze dell'ordine semplicemente perché non ci si mette alla guida dopo la cena, e non guidare dopo cena al buio e magari per chissà quanti chilometri, è comunque cosa buona per quanti sono i pericoli evitati sul nascere. Ristoranti dove cenare è esperienza memorabile di per sé, e però resa ancora più attrattiva dal km zero (sovente una rampa di scale e nulla più) tra il tavolo e il letto, con quanto ne consegue in termini di fruizione piacevolissima (c'è anche la colazione domattina) ce ne sono nell'ordine del centinaio. Sono stati denominati d&b (dinner & bed).
Convenzionalmente, il cutoff delle camere è la dozzina: non più di dodici camere. Perché questo cutoff? Semplicemente perché una struttura con più di dodici camere comincia ad essere un albergo con annesso ristorante mentre con d&b, lo si ribadisce volentieri, si vuole accortamente intendere un ristorante che ai suoi clienti che vogliono ivi recarsi per cenare molto bene, consente quella deliziosa sinecura costituita dal pernottare nella stessa struttura. Anche questa dei d&b è tendenza ed anche questa tendenza, in definitiva, va letta come ampliamento dell'offering: all'oggetto bianco “tovagliolo” aggiungiamo l'oggetto bianco “lenzuolo”. Al piacere sommo della cena memorabile affianchiamo il comfort del riposo notturno “in loco” e della gustosa e doviziosa prima colazione dell'indomani mattina.
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Alberto Lupini
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