Il futuro del cibo Una prospettiva drammatica

Partiamo da un "avvertimento": Se nel 2050 si raggiungeranno i 120 miliardi di animali da macellare all'anno, per nutrirli bisognerà impiegare due terzi delle terre arabili del pianeta

26 agosto 2019 | 15:08
Questa frase atta a smuovere un po' le coscenze è l'introduzione che il giornalista e scrittore Stefano Liberti fa della sua riflessione sul futuro del cibo, riflessione che qui andremo ad analizzare in punti chiave. Incontestabile ormai che il modello di produzione e commercializzazione degli alimenti, oggi di dimensioni globali, abbia un impatto non indifferente sugli equilibri ambientali, economico-sociali e persino culturali in vaste aree del pianeta.


Le coltivazioni di soia nel Mato Grosso

Per spiegare questo è buona cosa partire dal Mato Grosso. Siamo nell'estremo ovest del Brasile, 900mila chilometri quadrati (la superficie di Italia e Francia messe insieme) protagonisti di una delle maggiori sperimentazioni agrarie dei nostri tempi: un habitat biologicamente ricco, vario ma poco produttivo, viene rimpiazzato da una redditizia monocoltura destinata al commercio mondiale. Qual è questa monocoltura? La soia.

Viene anche definito il "legume dei miracoli": la soia parte da queste terre per arrivare in Cina e in Europa, dove viene sì consumata ma non dagli esseri umani, quanto dagli animali d'allevamento. I mangimi con cui viene alimentato il bestiame nei capannoni è sempre costituito di soia per il 20%, così anche il maiale in agrodolce a Shanghai o il panino al prosciutto dello studente a Milano inevitabilmente avranno una componente in comune, tanto invisibile, quanto imprescindibile: la soia.

Poco ci vuole ad immaginare quanto il territorio di questa regione del Brasile sia mutato per la produzione di questo legume. Chiaramente si parla di un aumento direttamente proporzionale al consumo di carne a livello globale. Se la produzione di soia era di 32 milioni di tonnellate nel 2000, solo nel 2017 è passata ai 117 milioni di tonnellate (così i 3 milioni di ettari sono divenuti 7 milioni). Per allargare ancora di più lo sguardo, un'area dell'America Latina soprannominata la Repubblica unita della soia, che comprende parti di Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia, conta 46 milioni di ettari, una volta e mezza l'intera superficie dell'Italia.


La produzione di soia nel Mato Grosso ha toccato le 117 milioni di tonnellate nel 2017

«Possiamo aumentare ulteriormente la produzione, c'è ancora tanta terra disponibile. Siamo il granaio del pianeta: il mondo chiede soia e noi abbiamo la terra e le condizioni per soddisfare questa richiesta». Queste le parole del direttore generale dell'Associação nacional dos exportadores de cereais (Anec) Sergio Mendes. Parole che si sono rivelate provvidenziali, specialmente rapportandole al sempre più teso rapporto commerciale tra Cina e Stati Uniti.

Un dato, prima: nel 2017, delle 117 milioni di tonnellate di soia prodotte in Sud America, 14 milioni sono volate verso l'Europa, mentre 54 milioni verso la Cina. Poi però, con i vicendevoli dazi imposti da Trump e dalla Cina, quest'ultima non ha più importato un singolo seme di soia dagli Usa; ecco allora che Pechino ha aumentato le importazioni dal Brasile, esaurendo tutte le scorte e spingendo gli imprenditori agricoli del Mato Grosso e degli Stati vicini ad aumentarne la produzione. Ecco allora che la frontiera agricola brasiliana si è spostata decisamente verso Nord.


Le esportazioni di soia dal Mato Grosso a Cina ed Europa - foto: ispionline.it

Tutta questa produzione, con l'attuale crescita a cui è sottoposta, comporta delle conseguenze: per garantire questo sviluppo agro-industriale è stato necessario un uso intensivo di agrofarmaci di sintesi, che hanno avuto un impatto non indifferente sull'ambiente. Ecco allora che, per garantire una produzione così elevata, «il Brasile è diventato il primo consumatore al mondo di fertilizzanti e pesticidi, senza contare la sua colpa nell'aver distrutto la biodiversità offerta dai propri terreni», ha spiegato João Pedro Stedile, portavoce e fondatore del Movimento dos trabalhadores rurais sem terra (Mst). A questa prima "colpa" si aggiunge quella per la graduale deforestazione dell'Amazzonia, che gioca un ruolo non secondario sui cambiamenti climatici e sul riscaldamento globale (quando si abbattono gli alberi non si riduce solo la capacità di immagazzinare CO2, ma si rilasciano al contempo ingenti quantità di anidride carbonica nell'atmosfera).

In nome di questa drastica verità, è stata organizzata dagli attivisti di Greenpeace una campagna che si è rivelata efficace: travestiti da polli, i membri dell'associazione sono entrati in vari McDonald's in giro per l'Europa, si sono incatenati alle sedie e hanno lanciato il messaggio: "Ogni volta che mangi i tuoi Chicken McNuggets stai portando via un pezzo d'Amazzonia". Una campagna shock che «si è rivelata vincente», ha spiegato Romulo Batista, responsabile di Greenpeace Amazzonia. «Da allora l'aumento della deforestazione dovuta direttamente alla produzione di soia è stato solo dell'1%». Certo, è anche vero che nulla impedisce si coltivi su aree disboscate precedentemente per altri usi, come legname o pascolo.


La campagna di Greenpeace nei McDonald's di tutta Europa - foto: mongabay.com

L'elezione alla presidenza del Brasile di Jair Bolsonaro, espressione dei gruppi più vicini agli interessi dell'agri-business, non promette nulla di buono per il futuro della più grande foresta pluviale del mondo. Intanto però Greenpeace ha sottolineato un punto fondamentale sul quale riflettere: il chiaro rapporto tra allevamenti intensivi e grandi monoculture. Sviluppatosi in modo massiccio nel secondo dopoguerra, l'allevamento intensivo ha permesso di fare economie di scala e concentrare molti più animali in spazi più ristretti: la produzione di carne è passata così dai 71 milioni di tonnellate nel 1961 ai 323 milioni di tonnellate nel 2017.

«Oggi sul pianeta vengono uccisi ogni anno 70 miliardi di animali per il consumo alimentare. Nel 1960 questa cifra era sette volte inferiore. Se il consumo di carne segue l'attuale traiettoria, nel 2050 verranno uccisi 120 miliardi di animali d'allevamento all'anno», così si è pronunciato Tony Weis, professore di geografia all'Università di Western Ontario.


In Cina vengono allevati 700 milioni di suini l'anno, la metà dell'allevamento mondiale

Questa evoluzione ha stravolto il concetto stesso di allevamento: se fin dai tempi dell'antica Mesopotamia gli animali sono stati parte integrante di un sistema organico e interdipendente con l'agricoltura, dando vita a quella che oggi potremmo definire economia circolare, con l'allevamento intensivo si passa ad un'economia lineare industriale, che consuma carburante e produce scarti. Gli scarti sono i liquami animali, non possibili concimi perché troppo concentrati in alcuni luoghi, quindi da smaltire; il carburante è appunto la soia.

Questa tendenza risponde a un modello oggi in auge e simile in tutto il mondo: l'incremento dei redditi e lo sviluppo dei ceti medi porta all'aumento del consumo di proteine animali. È accaduto in Occidente nel secondo dopoguerra e sta accadendo oggi in altri Paesi, più popolosi. Alcuni esempi? Se dal 1961 a oggi il consumo di carne procapite in Europa Occidentale è passato da 50 a 80,6 km, negli Usa è passato da 89,2 a 120,2 mentre in cina da 4 a 58,2. Questa crescita turbinosa di consumi è causa delle produzioni intensive in Brasile e in tutto il Sud America.


La graduale deforestazione dell'Amazzonia

Anche se sembra assurdo, quindi, è così: la Cina oggi importa il 60% del totale di soia al mondo, e deve prenderla per forza dal Brasile o da altri Paesi, perché lo stato di Pechino non dispone di sufficienti terreni coltivabili per produrre la soia e il mais necessari a sfamare la crescente popolazione animale presente nel Paese - si parla di 700 milioni di capi allevanti ogni anno, la metà di tutti i suini del mondo.

Per l'importazione del legume la Cina attinge dal Sud America e dagli Stati Uniti (tolta la parentesi dei dazi), ma non si esclude che in futuro cercherà di approvvigionarsi anche altrove. Ad esempio, nell'Africa sub-sahariana c'è la volontà di produrre soia da esportare. In Mozambico il progetto ProSavana è stato lanciato con l'obiettivo di replicare l'esperienza del Mato Grosso nel corridoio di Nacala, 14 milioni di ettari nel nordo del Paese. Il progetto è ora in stallo, ma non si esclude verrà rilanciato. Se andasse in porto, nascerebbe una contraddizione con il modello prevalente in queste zone, quello del piccolo produttore, con conseguenti tensioni.


Contadini del Mozambico contro il progetto ProSavana - foto: Green Report

Queste tensioni però non sono di certo la cosa che preoccupa di più: se infatti i cinesi oggi consumano la metà della quantità che procapite consuma un americano, è anche vero che la popolazione della Cina contra 1,4 miliardi di persone. Se queste si allineassero alle tendenze statunitensi, la prospettiva diverrebbe preoccupantemente apocalittica. Pensare che per nutrire i "possibili" 120 miliardi di animali nel 2050 bisognerà utilizzare due terzi delle terre arabili del pianeta deve essere punto di partenza per cambiare le cose.

Ecco allora che la Fao (l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura) fa un ammonimento: bisogna produrre e consumare in modo diverso, va in particolare rivisto il modello che prevede un aumento costante dell'uso delle proteine animali. Il cambio di mentalità deve cominciare dal prezzo che viene pagato per la carne, che non tiene conto né dell'inquinamento prodotto dall'uso di pesticidi, né del mancato immaganizzamento della CO2, né dell'enorme consumo di acqua che richiede la produzione di un chilo di carne; non tiene nemmeno conto dei costi sociali, come la trasformazione delle campagne in fabbriche di alimenti e l'espulsione di piccoli agricoltori dalla catena di produzione alimentare. Se venissero considerati tutti questi aspetti, il costo reale del cibo a basso prezzo sarebbe almeno il doppio.


C'è bisogno di precise politiche e di una campagna di consapevolezza generale

Per far sì che questi criteri pesino e che inevitabilmente venga impartito un cambio di rotta, c'è bisogno di precise politiche e di una campagna di consapevolezza generale.

Perché ignorando questi presupposti, cosa accadrebbe? L'iper consumo di carne e il modello di produzione ad esso correlato porteranno ad incalcolabili danni ambientali e sociali, aumenterebbe la temperatura del pianeta, portando alla desertificazione di determinate aree del mondo come l'Africa sub-sahariana; la scarsità di acqua allora scatenerà una guerra per le risorse con le comunità confinanti; ci saranno sfollati flussi migratori verso i Paesi vicini e ancora episodi di xenofobia nei confronti dei nuovi arrivati.

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Alberto Lupini


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