Dall'Iva ai codici Ateco, serve più chiarezza sulla ristorazione
La Corte di giustizia ha sentenziato i criteri per qualificare un servizio di ristorazione ai fini Iva. La differenza la fanno i servizi a supporto e la domanda del cliente. Ma serve fare chiarezza sulla somministrazione
23 aprile 2021 | 12:05
È toccato ancora alla giustizia mettere una pezza alle falle della legislazione sulla somministrazione di cibi e bevande. La sentenza della Corte di giustizia mette un punto alla questione della tassazione Iva delle vendite da asporto e a domicilio. Tema centrale per il settore della ristorazione, soprattutto in un momento in cui il ritiro e il delivery hanno consolidato la propria posizione di mercato spinte dalle conseguenze dell’emergenza Covid. E che si lega a doppio filo alla discussione sui codici Ateco; attualmente in secondo piano dopo aver rappresentato il primo criterio per la gestione delle aperture-chiusure e dei ristori, nonché del calcolo dell’Iva.
Nelle linee guida redatte nel 2011, Inail ha infatti associato a ciascun codice Ateco una fascia di rischio specifica per ciascuna attività economica. Una corretta individuazione del rischio aziendale attraverso il codice Ateco è fondamentale poiché da essa dipendono le misure di sicurezza dei locali e le misure di prevenzione e protezione dei lavoratori, nonché la loro specifica formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. E, infine, la qualificazione in termini Iva.
Per lungo tempo, il Governo ha tenuto un atteggiamento rigido sul tema. Tanto da rendere difficoltose le attività dei locali pubblici, nel frattempo costretti a trasformarsi in mense o gastronomie per rimanere operativi. Il rischio assegnato ai bar e ai ristoranti, nonostante i rilievi scientifici (compresi ora quelli sul coprifuoco, ma fermarsi solo a valutazioni fredde, tecniche e in qualche caso pure vetuste e non veritiere è uno dei maggiori errori compiuti da marzo 2020 a oggi.
La sentenza della Corte di giustizia
In particolare, la sentenza della Corte di giustizia ha affermato che la cessione di cibi accompagnata da servizi di supporto sufficienti a consentirne il consumo immediato va considerata come servizio di ristorazione o catering ai fini Iva. La sentenza arriva dopo che, nella Legge di Bilancio 2021, il legislatore aveva considerate soggette all’aliquota del 10% le cessioni di piatti pronti o «altrimenti preparati in vista del consumo immediato, della loro consegna a domicilio o all’asporto». Una bella riduzione rispetto al 22% iniziale.Cosa sono i "servizi a supporto"? Personale, servizio al tavolo, ecc.
Ma quali sono quei “servizi a supporto” che fanno la differenza? Secondo il diritto europeo, recepito dall’Italia, occorre considerare la presenza di diversi elementi: presenza di personale, esistenza di un servizio di trasmissione degli ordini, presentazione dei piatti, servizio al tavolo, esistenza di locali chiusi, ecc. Anche la prospettiva del cliente, però, fa la differenza. Se quest’ultimo non intende usufruire dei servizi a supporto, anche qualora presenti, allora la qualificazione da “servizio” diventa una “cessione” di beni. Con tutto quello che ne discende in termini Iva (al 22%).Dall'Iva ai codici Ateco: tempo di ripensamenti?
Il tema Iva si lega poi a quello dei codici Ateco, più volte affrontato da Itala a Tavola. Al centro di grandi scontri nella prima fase della pandemia. Ma cosa sono? I codici Ateco tecnicamente identificano una attività economica. Le lettere individuano il macro-settore economico mentre i numeri (da due fino a sei cifre) rappresentano, con diversi gradi di dettaglio, le specifiche articolazioni e sottocategorie dei settori stessi. Nell’ambito della sicurezza del lavoro, il codice Ateco è necessario all’individuazione della macrocategoria di rischio dell’attività economica (rischio basso, medio, alto).Nelle linee guida redatte nel 2011, Inail ha infatti associato a ciascun codice Ateco una fascia di rischio specifica per ciascuna attività economica. Una corretta individuazione del rischio aziendale attraverso il codice Ateco è fondamentale poiché da essa dipendono le misure di sicurezza dei locali e le misure di prevenzione e protezione dei lavoratori, nonché la loro specifica formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. E, infine, la qualificazione in termini Iva.
Per lungo tempo, il Governo ha tenuto un atteggiamento rigido sul tema. Tanto da rendere difficoltose le attività dei locali pubblici, nel frattempo costretti a trasformarsi in mense o gastronomie per rimanere operativi. Il rischio assegnato ai bar e ai ristoranti, nonostante i rilievi scientifici (compresi ora quelli sul coprifuoco, ma fermarsi solo a valutazioni fredde, tecniche e in qualche caso pure vetuste e non veritiere è uno dei maggiori errori compiuti da marzo 2020 a oggi.
L'alternative: maggiore differenziazione
«Indubbiamente la tutela della salute pubblica è prioritaria su ogni cosa, ma se si vuole seriamente aiutare il comparto ristorazione si devono iniziare a distinguere i codici Ateco in Italia. Per la somministrazione di cibi e bevande, esiste quasi un unico codice Ateco, ragion per cui si continuano a emettere dei decreti con lo stesso criterio per tutti, ma sappiamo benissimo che il rischio di contagio da coronavirus non è uguale in tutte le attività di ristorazione, pizzerie, pub, bar ecc», aveva affermato in un’intervista Seby Sorbello, chef patron del Sabir Gourmanderie all’interno del Parco dei Principi Resort nel 5 stelle Esperia Palace Hotel a Zafferana Etnea (Ct).Verso il codice unico per la somministrazione?
La decisione sull’Iva per asporto e delivery (al 10% rispetto al 22%, riservato alla cessione di beni), assieme al processo di ripensamento dei codici Ateco spinge anche verso una maggiore chiarezza del concetto di somministrazione. Ancora a dicembre, infatti, la stessa Agenzia delle Entrate ha ribadito che «nell'ordinamento fiscale nazionale non esiste una compiuta definizione di somministrazione di alimenti e bevande». Una sua revisione potrebbe risolvere i vari inghippi e i dubbi degli operatori che, sotto una stessa qualifica, potrebbero far rientrare attività diverse, ma tutte facenti capo allo stesso business, soprattutto in un momento in cuila ripartenza sembra a portata di mano. A questa attività, poi, si potrebbe applicare la tariffa agevolata del 10% e favorire così le diverse di modalità di consumo che può mettere in campo un punto vendita food; che sia una gastronomia o un locale stellato.© Riproduzione riservata
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