Asporto e delivery, caos sull'Iva Registratori di cassa da adeguare

La somministrazione prevede un’aliquota del 10%, mentre l’asporto e/o la consegna a domicilio ne applicano diverse in base alla tipologia di quanto venduto. Chi sceglie questa strada ex novo deve aggiornarsi

11 maggio 2020 | 13:03
Nell'attuale scenario di confusione, che vede la nostra accoglienza messa nel dimenticatoio pur valendo un terzo del Pil nazionale, non solo non arrivano aiuti concreti, ma si continua a buttare alcol sul fuoco. Un tira e molla snervante: distanza tra i tavoli di quattro metri, ma dehors, per così dire, agevolato. Sempre che l’atteso Decreto legislativo Rilancio non si riveli aria fritta e i finanziamenti a fondo perduto alle piccole imprese, così come il credito di imposta per pagare gli affitti dei locali facciano il salto dallo stato onirico a quello di realtà.


Una svolta potrebbe essere l’avvio di nuove attività adottando codici Ateco aggiuntivi, come quello per la gastronomia

Su questo patibolo, tanto per complicare ancora di più le cose, si è affacciata anche la questione aliquote Iva differenziate in merito ad asporto e delivery. Entriamo nel merito. In seguito al Dpcm 26 aprile, gli esercizi abilitati alla somministrazione di alimenti e bevande possono effettuare su tutto il territorio nazionale la loro attività solo in modalità asporto e/o consegna a domicilio. Ma il Dpr 633/72 prevede l’applicazione dell’Iva con aliquote differenziate rispetto alla somministrazione (il consumo) presso il locale.

In soldoni, la somministrazione è assoggettata a un’aliquota del 10%, mentre l’asporto e/o la consegna a domicilio vengono considerati “cessione di beni ” e devono applicare aliquote in base alla singola tipologia di quanto venduto. Semplificando, una birra che uscirà dal locale avrà un’Iva del 22%, una salsiccia del 10%, la frutta del 4%, un piatto pronto del 22%. Un bel mosaico. C’è da dire però che non si tratta di una novità normativa: il Governo, infatti, non ha apportato specifiche modifiche al Dpr 633/72 per asporto e consegna a domicilio di alimenti e bevande.

Nessun problema, quindi, per chi ha sempre adottato questi servizi. I bar e i ristoranti che già effettuano asporto o consegna a domicilio hanno già attivo sul proprio registratore telematico il tasto “asporto” o quelli differenziati per aliquote Iva dei prodotti venduti.

Per gli altri esercizi, che in questa emergenza hanno dovuto fare di necessità virtù, sarà necessario adeguare i registratori di cassa, non potendo al momento effettuare “somministrazione presso i propri locali” e quindi non potendo applicare la relativa Iva del 10%. Un grattacapo in più, certo, ma tirare diritto ribellandosi alle mille pretese di uno Stato che si ricorda di te solo per spremerti – fantasia condivisibile, per altro – porterebbe danno su danno. Il Fisco ha la memoria lunga e prima o poi arriva. Questo è il momento di far cassa, non di subire sanzioni amministrative.

Una svolta, come già segnalato più volte da Italia a Tavola in questo periodo, potrebbe essere l’avvio da parte dei ristoranti di nuove attività adottando dei codici Ateco aggiuntivi, tipo quello per la gastronomia, per sua natura “da asporto”. Il codice Ateco identifica un’attività economica. Le lettere individuano il macro-settore mentre i numeri (da due fino a sei cifre) rappresentano, con diversi gradi di dettaglio, le specifiche articolazioni e sottocategorie.

È sufficiente andare sul sito della propria Camera di commercio e chiederne on line l’attivazione. Nell’arco di due o tre giorni si possono ottenere le licenze per poter operare in tranquillità non avendo problemi anche in caso di vendita diretta senza ordinazione.

La soluzione in assoluto migliore sarebbe comunque che in automatico il Governo collegasse in tutta Italia ai codici Ateco di chi fa bar e/o ristorazione (gruppo 56) e pasticceria-pizzeria- gelateria (gruppo 10) il codice Ateco (10.85) delle gastronomie, così da permettere la vendita al pubblico anche di piatti pronti. Procedure Haccp, packacing e fisco si adattano in fretta. Stessa cosa si può fare col delivery, aggiungendo a tutti anche il codice Ateco 56.10.20 o altri più specifici per i corrieri. ??Il punto da mettere a fuoco sarebbe quello di mettere tutti gli esercizi pubblici nella condizione di poter operare con regolarità, e serenità, se ritengono di farlo, nel rispetto delle normative, compensando così con nuove attività (delivery e asporto) il previsto drastico calo di ricavi per riduzione dei coperti.

I codici Ateco (con gli obblighi fiscali, previdenziali e di igiene previsti) potrebbero inoltre essere assegnati anche agli agriturismi e ai circoli, equiparando così a tutti i livelli i diversi locali del fuori casa con le stesse regole di mercato. Un ex agriturismo potrebbe continuarsi a chiamarsi tale, per marcare magari una caratteristica di territorialità, ma a tutti gli effetti avrebbe gli obblighi e i diritti di un ristorante.

L’attività di vendere piatti pronti da asporto - nel rispetto delle norme di sicurezza sanitaria e di distanziamento – è un modo di contenere i danni e tornare a svolgere un servizio di pubblica utilità. Esattamente ciò che accade nella maggior parte dei Paesi europei, dove il take away è da sempre una regola, dalla Germania alla Francia, dalla Danimarca alla Gran Bretagna, dall’Irlanda all’Olanda. Peccato che in Italia è vietato, anche se basterebbe avere una licenza in più e avviare una diversa contabilità fiscale.

La posta in gioco è pesante. In ballo c’è il rischio di perdere quest’anno 28 miliardi di incassi, di avere 50.000 imprese che non riapriranno e 300.000 posti di lavoro in meno.
 

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Alberto Lupini


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