Da Shakespeare a Leopardi: come il vino ha ispirato la letteratura

Il vino, protagonista indiscusso della letteratura, rivela profonde differenze culturali. Nell'area mediterranea è simbolo di gioia e conforto, mentre nel mondo anglosassone è spesso associato a eccessi e sofferenza . Autori come Baudelaire e Saba ne hanno celebrato le virtù, mentre Shakespeare ne ha evidenziato i pericoli

17 agosto 2024 | 05:00
di Giambattista Marchetto

Gli scrittori, i poeti, i romanzieri che hanno parlato, descritto e spesso lodato il vino sono così numerosi che il binomio vino e letteratura si presta facilmente a un monotono rosario di citazioni, a un pastone mini-enciclopedico di nomi, dai greci ai contemporanei. Più che allestire un pastone googloide, può essere stimolante (senza pretendere di essere esaustivi) individuare una direttrice di fondo che ha segnato il rapporto culturale tra scrittura e vino in Occidente.

Vino e letteratura: una differenza geografica

Questa linea di divisione è senz’altro geografica e culturale. Il numero degli scrittori occidentali forti bevitori, se non alcolisti, è soprattutto circoscritto all’occidente anglosassone, dove più che il vino è stato storicamente vincente il prodotto alcolico dell’orzo, del ginepro, della canna da zucchero. Da Hemingway a Faulkner, da Scott Fitzgerald a Faulkner, da Dylan Thomas a Jon Fosse, a dominare i consumi dei letterati nord atlantici sono il whisky, il rum, il gin. Da cui anche gli effetti maggiormente incisivi e negativi sulla salute di tali abitudini.

Invece i letterati bevitori, più o meno parchi, di vino, si concentrano tutti nell’area mediterranea. Dove più facilmente nasce il frutto che va nel bicchiere, nasce anche la maggior messe di pensieri, di citazioni, di inni. Qui a colpire è l’uniformità di fondo, pur tra mille stimolanti sfumature, della visione che del vino è stata elaborata dalla letteratura occidentale mediterranea. Il vino è consolatore degli affanni, suscitatore di speranze, produttore di gioia.

L'anima del vino di Baudelaire

Le classifiche sono superflue, ma è forse Charles Baudelaire il poeta moderno che ha saputo scrivere le cose più profonde e conturbanti, dedicando un’intera sezione del suo capolavoro, “I Fiori del Male” (1857), al vino, concepito come rimedio allo spleen acuito dalla metropoli moderna descritta nei “Taubleaux parisiens”. In una di queste, la famosissima “L’anima del vino”, è la bevanda stessa a prendere la parola e a cantare dentro la bottiglia rivolgendosi all’uomo che si appresta a berlo, definendolo non a caso “caro diseredato”, come a dire che l’uomo è diseredato in quanto uomo: “Senti come bisbiglia la speranza nel mio seno palpitante? Vedrai come mi esalterai e sarai contento coi gomiti sul tavolo e le maniche rimboccate!”.

Ne “Il vino degli straccivendoli” la rappresentazione positiva del vino si unisce alla realistica descrizione della vita dei diseredati dei sobborghi fangosi di Parigi, a cui il vino fornisce l’unica fonte di conforto, e che vengono paragonati al poeta per la ricerca comune di superare lo spleen con il vino: “Per spegnere il rancore, cullare l’indolenza, di quei vecchi che muoiono, maledetti, in silenzio, Dio, pentito, creò il sonno, le sue fole. L’uomo vi aggiunse il vino, sacro figlio del sole”.

Il vino pericoloso di Shakespeare

Una parziale eccezione che conferma la regola che nella letteratura anglosassone è meno presente il vino la troviamo in Shakespeare. Ed è una visione del vino come pericoloso strumento di eccitazione e di perdita di controllo nell’esercizio delle proprie funzioni, da cui può scaturire disordine con conseguenze nefaste. In “Otello”, che però è ambientato a Cipro e quindi in contesto mediterraneo più coerente con il vino, Cassio, luogotenente di Otello, è incline al bere, in ciò favorito dal perfido Iago. Quando in seguito a una rissa scatenata dalla sua ebbrezza, Otello lo degraderà togliendogli la carica, Cassio proromperà in un disperato lamento: “Oh tu, invisibile spirito del vino, se proprio non hai alcun nome con cui ti si possa chiamare, lascia pur che ti si chiami col nome del demonio!”.

Vino e letteratura: speranza e ferite rimarginate

Il vino come datore di speranza e conforto delle amarezze ha una tradizione antichissima, fin dalla grecità. Ma il più bel verso, per la calma tristezza e la finezza formale che lo caratterizza, è nei “Carmina” di Orazio, dove rivolgendosi a Virgilio definisce il vino “buono a destare nuove speranze e a dissipare l’amarezza delle tensioni”. Del resto sono molti i passi in cui il poeta latino loda il vino, simbolo del suo epicureismo moderato che inneggi a carpere il diem. In realtà pare che fosse poco meno che un enologo avanti lettera, che sapesse di vinificazione e di tecniche di produzione.

Una profonda umanità e una originale sensibilità contraddistinguono il modo in cui Umberto Saba recepisce e reinterpreta la concezione del vino come consolazione degli affanni. Saba ha amato molto il Baudelaire dei “Tableaux parisiens”, ma vi accompagna una speciale solidarietà universalistica che ha toni più intimi, di una malinconia calma e meno “maledetta” dello spleen del grande parigino. Nel “Canzoniere”, nella celebre poesia “Teatro degli artigianelli”, quadro di vita popolare scritto a Bologna all’indomani della Liberazione, con l’anima scossa da una gioia mista al dolore, Saba conclude con una nota di pathos trattenuto: “Tra un atto e l’altro, alla Cantina in giro rosseggia parco ai bicchieri l’amico dell’uomo, cui rimargina ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esili, si scalda a lui come chi ha freddo al sole”.

Vino e ispirazione in Leopardi

Un pensiero di particolare acutezza si trova nello Zibaldone di Leopardi, dove il poeta 25enne attribuisce “all’uomo qualunque, mezzanamente riscaldato dal vino, la facoltà di vedere e guardare le cose come da un luogo altro e superiore a quello che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere.” Ciò lo avvicina, “ardisce soggiungere” Leopardi “al poeta lirico nell’ispirazione, al filosofo nella sublimità della speculazione, all’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, all’uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell’entusiasmo del pianto”.

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Alberto Lupini


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