Il paradosso del vino italiano low e no-alcol negli Usa: uve italiane, business americano

Tante le aziende a stelle e strisce (80% del valore delle vendite), che importano dal Belpaese il prodotto finito ed etichettato e lo rivendono sul mercato statunitense, generando un fatturato di 651 milioni di dollari

08 febbraio 2024 | 18:16

Vini italiani o prodotti a base vinicola italiana, venduti da imprese non italiane a un prezzo medio allo scaffale di quasi 16 dollari al litro, più del doppio rispetto alle omologhe bottiglie statunitensi (7 dollari) e addirittura il 5% in più al confronto con la media dei vini tricolori tradizionali. Sono i vini low e no-alcol che spopolano negli Stati Uniti, generando 651 milioni di dollari il fatturato nella grande distribuzione e nel retail americano nel 2023. Vini rossi, bianchi, spumanti, prodotti aromatizzati tricolori classificati da NielsenIQ come “vini poco alcolici”, in gran parte a fermentazione parziale oppure dealcolati. Bottiglie, ma anche lattine, da 7 gradi in giù, quasi totalmente sconosciute nel Belpaese, ma sempre più presenti tra gli scaffali Usa.

Prodotti che rappresentano il 28% degli acquisti totali di prodotti vitivinicoli italiani negli Stati Uniti, capaci di rosicchiare quote a Prosecco, Chianti, Pinot grigio o Valpolicella. Come rilevano le elaborazioni dell’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv) su base NielsenIQ, se è vero che il vigneto è italiano, il business è nella stragrande maggioranza dei casi appannaggio di aziende a stelle e strisce (80% del valore delle vendite), che importano dal Belpaese il prodotto finito ed etichettato e lo rivendono sul mercato statunitense. Una produzione Made in Italy con incassi Made in Usa, con le cantine e le imprese italiane perlopiù relegate alla produzione e all’imbottigliamento.

I prodotti italiani zero alcol negli Usa sono pochi

Un paradosso per la superpotenza enologica e per l’Italian style, che tira anche su una categoria, quella “low”, relativamente giovane e - fatto salvo l’ultimo anno - protagonista di una cavalcata che, grazie al cambio di gusti tra le varie generazioni ed etnie del Paese, li ha portati a essere una scelta non più secondaria rispetto al vino classico. E il fenomeno è ancora più evidente se si guarda ai “no alcol”: si tratta di vini che partono da numeri bassi, ma che nel giro di due anni hanno raddoppiato le vendite negli Usa, attestate oggi - sempre secondo l’Osservatorio Uiv - a 62 milioni di dollari. I prodotti italiani a zero alcol sugli scaffali statunitensi sono pochi. Le vendite ammontano ad appena 4,5 milioni di dollari (+39% sul 2022) con un prezzo medio di 14 dollari al litro.

Una quota residuale della presenza italiana (il 7% del totale), che diventa minuscola se si considera che il 90% delle vendite è imputabile a una sola azienda, per giunta americana, che acquista in Italia i prodotti finiti e li commercializza con marchio proprio. In pratica il segmento no alcol direttamente gestito da imprese tricolori vale negli Usa meno di 500 mila dollari. Un contoterzismo del Made in Italy enologico sulla falsariga dello scenario evidenziato per i low alcol, reso ancora più evidente dalla impossibilità per l’impresa Italia del vino di accedere a un business, quello dei dealcolati, bloccato dalle leggi vigenti nel Belpaese, ma non in Europa. Negli Usa, oltre ai marchi americani, sono già venduti vini a zero gradi totalmente dealcolati prodotti da aziende spagnole, tedesche e francesi, che traggono beneficio da una regolamentazione in linea con quella europea.

Il rischio? La delega della produzione ai competitor

Per il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti: «Il segmento low-alcol può rappresentare un’opportunità anche e soprattutto là dove il prodotto tradizionale fa fatica, come dimostra il record ventennale di vino rimasto in cantina al termine della scorsa campagna vendemmiale. Oggi per fare vini low alcol i produttori italiani hanno tre strade: utilizzare il vino come base per bevande aromatizzate, produrre vini da mosti parzialmente fermentati, oppure - in caso vogliano procedere con la dealcolazione - delegare il processo produttivo nei Paesi europei diretti competitor». Proprio il segmento dei vini dealcolati sembra quello più interessante in ottica di medio termine, in grado di per intercettare le tendenze salutistiche in atto nel Paese, sempre più orientato a ridurre l’assunzione non solo di alcol ma anche di zuccheri.

Vini low e no alcol: gli svantaggi competitivi dell'Italia

Una categoria, quella dei "Nolo" (low e no alcol), da molte imprese considerata a maggior potenziale di crescita qualitativa. In Italia purtroppo - segnala Unione italiana vini - non si riesce a partire: «Da tempo - sottolinea Castelletti - Uiv sollecita un intervento normativo per disciplinare una produzione che l’Unione Europea ha autorizzato da più di due anni. Al netto delle bozze di decreto - su cui abbiamo evidenziato le perplessità del settore vino - siamo gli unici a non aver ancora recepito il regolamento Ue, con evidenti svantaggi competitivi rispetto ai produttori comunitari. Riteniamo quindi che il Governo debba trattare con la massima urgenza questo tema non più derogabile, definendo con chiarezza e assieme al comparto un perimetro chiaro di azione».

La beffa è trovare al supermercato sotto casa vini no e low alcol di competitor stranieri, oggi in vantaggio su una ricerca e sperimentazione del segmento che sta facendo progressi di giorno in giorno. Il low alcol italiano, rappresentato sia da prodotti aromatizzati a base di vino sia da vini veri e propri, negli Usa vale 651 milioni di dollari, quasi il 70% del totale della categoria (da 7 a 2 gradi), che nel complesso nel 2023 ha raggiunto i 943 milioni di dollari e quasi 110 milioni di bottiglie vendute. L’origine italiana, regina del mercato, è rintracciabile - tra i fermi - soprattutto nei rossi (39%, a 254 milioni di dollari), seguiti dal Moscato (103 milioni) e dai rosati (23 milioni).

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Alberto Lupini


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