Intervista a Maestrelli: «Il cocktail perfetto? Un elefante su una ragnatela»

Maurizio Maestrelli, giornalista e divulgatore veneziano, ha da poco pubblicato per Gribaudo editore con “La grammatica dei cocktail”, che segue un percorso incredibile lungo la storia del bere miscelato . E in questa intervista a Italia a Tavola, muovendo dal libro, si ragiona di costume, mode e mercato

07 dicembre 2024 | 05:00
di Giambattista Marchetto

Tra moda e artigianato, la miscelazione ha segnato la storia della letteratura e del cinema. E proprio il fascino di quel pezzo di mondo tra bottigliera e bancone è alla base di un movimento in evoluzione, che attrae i giovani e fa parlare di sé. Il mondo della mixology mostra infatti un’identità contemporanea, che stupisce con continue invenzioni tra chimica e creatività, ma affonda le sue radici nell’antichità. È in questa duplicità che lo scrittore e giornalista veneziano Maurizio Maestrelli accompagna il lettore con il suo nuovo “La grammatica dei cocktail”, uscito da poco per le edizioni Gribaudo. Il libro segue un percorso incredibile lungo la storia del bere miscelato. Gli strumenti, le tecniche, la vita di grandi e leggendari bartender, assieme a ricette famose (cinquanta drink che hanno fatto la storia), aneddoti e curiosità che legano i cocktail al mondo dello spettacolo, della letteratura e della musica. È un volume attraversato da competenza e ironia, la stessa che l’autore rivela nell’intervista a Italia a Tavola.

Maestrelli, la storia della miscelazione

Maestrelli, partiamo dalla storia. Quando si parla di miscelazione si pensa al contesto luccicante dei cocktail bar o a James Bond. E invece tra le pagine del suo libro si scopre che ha radici antiche…
Fonti storiche dimostrano che è sempre stato nella natura dell’uomo modificare ciò che la natura aveva da offrirgli. Fin dall’antichità sia la birra che il vino erano oggetto di aggiunte, modifiche… miscelazioni se vogliamo. Pensiamo al vino di Ippocrate, addolcito con il miele e con fiori di artemisia, o al vino che bevevano i Romani, spesso annacquato ma anche arricchito di botaniche a scopo curativo. Forse la miscelazione nasce proprio da queste due esigenze diverse ma anche complementari ovvero la ricerca di un gusto più piacevole e il tentativo di trovare dei rimedi a malattie o semplici malesseri.

 

Come nasce, se c’è una data di nascita, la miscelazione consapevole?
Le fonti affermano che il termine cocktail sia apparso per la prima volta nel 1798 sulle pagine di un quotidiano londinese. Quindi, se vogliamo, possiamo prendere questa data come l’anno zero della miscelazione consapevole, però si può considerare la nascita della miscelazione anche con l’affermazione del punch in Inghilterra, un secolo prima, oppure quando qualcuno, rimasto sconosciuto, ha replicato consapevolmente per la prima volta un “intruglio alcolico” che gli era piaciuto creando così il primo cocktail “consapevole” della storia.

E in quest’ottica la miscelazione è una forma di artigianato o è stata sviluppata con velleità artistiche?
Realizzare un cocktail è sempre una forma di artigianato. C’è la manualità prima di tutto e anche la creatività se si tratta di una ricetta nuova, creatività che poi se è particolarmente indovinata può arrivare a far guadagnare il titolo di artista. Anche se - detto tra noi - io andrei piano ad attribuire patenti d’artista ai bartender così come ai cuochi, vignaioli, birrai e giornalisti di settore. Questa cosa dell’esaltazione a tutti i costi, della gara all’iperbole è stancante e spesso ridicola…

Maestrelli, il momento della mixology

Perché ancora oggi è capace di affascinare i pubblici più differenti?
Dal mio punto di vista perché il mondo della mixology ha un fascino che si espande oltre gli ingredienti e il grado alcolico. Dietro quasi ogni cocktail c’è una storia da raccontare, aneddoti e leggende, storie vere e storie inventate di sana pianta ma che si continuano a tramandare proprio perché hanno un fascino che ti porta a scegliere un determinato cocktail. Sono ad esempio convinto che molti di coloro che bevono Martini lo fanno per l’alone quasi mistico che il drink si è guadagnato negli anni a furia di citazioni letterarie, politiche e cinematografiche, più che per il gusto in sé.

Tra momenti di hype e momenti di evoluzione come nicchia specifica, quale fase sta attraversando oggi la mixology?
Una fase di crescita. Poi certo c’è la moda e le mode hanno sempre un loro ciclo vitale ma oggi c’è una nuova generazione che ha riscoperto il fascino di bere drink che sono magari stati creati al tempo dei loro nonni. E questo da un lato accade proprio perché le mode, per definizione, sono temporanee: anni fa sembrava si dovesse parlare solo di birra artigianale, oggi cocktail e distillati sono hype, domani chissà sarà il turno degli specialty coffee o di altro ancora. Però si deve fare attenzione: l’hype può essere generato dal giornalismo, dalla comunicazione o dal marketing, ma fino a quando non lo si registra a livello di consumi è solo aria fritta. Il bere miscelato emerge non perché si scrivono più articoli sul tema rispetto a qualche anno fa, ma perché al supermercato ti rendi conto di quanto si sia arricchita l’offerta di distillati e liquori e di come sempre più supermercati si siano messi a vendere ghiaccio in cubetti…

 

Ha senso leggere un parallelismo tra la miscelazione e la cucina d’autore? Il bartender è uno chef dietro al bancone?
Il bartender è un attore che recita, nel senso buono del termine, su un palcoscenico. Quindi ha potenzialmente un appeal che è superiore anche a quello di uno chef, almeno di quelli che ancora stanno in cucina. Quando shakera, quando versa con il jigger “in rovesciata” (come la definisco io), quando posiziona con le pinze la fetta d’arancia o strizza la scorza di limone con un gesto quasi cerimoniale, focalizza l’attenzione su di sé e quindi è un autore/attore protagonista. E allo stesso tempo gratifica il cliente, che lo può osservare sapendo che quei gesti, quella cerimonia e quel drink sono per lui e per nessun altro.

Maestrelli, gli schemi da rompere ci sono sempre

Quanto conta la formazione nel mondo mixology? E quanto la capacità di rompere gli schemi?
La formazione è fondamentale. So che questa è la risposta standard, ma in tempi di hype c’è chi sottovaluta la gavetta e la formazione pensando di diventare un bartender famoso bruciando le tappe o puntando tutto sui social e sull’autopromozione. In realtà sai rompere gli schemi solo se gli schemi li conosci già a memoria e per conoscerli a memoria devi possedere tra caratteristiche: avere una formazione seria e approfondita, aver fatto esperienze diverse, saper mantenere una curiosità verso tutto ciò che ti circonda, perché non sai mai da dove ti può arrivare l’ispirazione che ti fa rompere gli schemi.

Ci sono ancora schemi da rompere? Ha ancora senso parlare di innovazione?
Certo, ci sono sempre degli schemi da rompere, ma il problema è che devi innanzitutto conoscerli. Poi, parlando di innovazione, a me viene sempre in mente una battuta del mio professore di filosofia al liceo. Arrivati credo a spiegare Kant o Hegel si fermò, fece un sospiro e quasi con tristezza e a mezza voce disse: “ma in fondo la filosofia greca aveva già detto tutto”. Per me inizialmente fu uno shock, anche se subito dopo mi chiesi perché diavolo allora ci stava massacrando a colpi di Kant o Hegel. Ma tornando alla miscelazione, anche io ogni tanto penso che in fondo sia già stato “detto tutto” e che l’innovazione di cui si parla tanto non è che un ricamo su un tessuto già filato. Spero però di avere torto.

Maestrelli, la qualità è regina della mixology

C’è stato un tempo in cui la miscelazione era forse una “copertura” per l’utilizzo di ingredienti di scarsa qualità. È cambiato l’approccio? C’è una maggiore attenzione alla qualità degli spirits e dei mix e dei garnish?
Sì, fortunatamente credo che questo approccio sia decisamente cambiato e in meglio. Magari non in tutti i bar, ma l’attenzione verso la qualità degli ingredienti è una delle ragioni del successo dei locali. I bartender oggi spendono molto più tempo in preparazioni home made, lavorano con distillati di valore, termine che non va identificato solo con il valore economico della bottiglia, e hanno alzato l’asticella della qualità del cocktail finito. Il tempo degli intrugli meramente alcolici senza né capo né coda sta volgendo al termine o resta confinato sul fondo del mercato.

Quanto impatta la qualità di uno spirito sull’eccellenza del miscelato?
Parecchio. Soprattutto nei cocktail “semplici”, ovvero quelli con pochi ingredienti e nei quali si percepisce l’apporto dello spirito. Poi, certo, più ingredienti aggiuntivi e incisivi sotto il profilo organolettico ci metti e più copri il ruolo aromatico del distillato. L’errore da non fare, lo dico da cliente, è quello di lasciarsi impressionare dal distillato di qualità e di costo elevato all’interno di un drink nel quale poi magari gli altri ingredienti lo seppelliscono.

Maestrelli, giro di cocktail

Proviamo ad entrare nel merito … Quanto è facile o difficile preparare un buon Gin Tonic? E quanto influisce la qualità del gin?
Il Gin Tonic è stato per più generazioni il biglietto d’ingresso nel mondo degli alcolici e degli adulti. In fondo è ghiaccio, gin, tonica e una fetta di limone per cui era il classico primo drink che si faceva anche alle feste del liceo, al tempo però in cui era possibile reperire solo poche etichette di gin e, fondamentalmente, una sola tonica. Oggi le cose sono molto diverse: centinaia di etichette di gin e centinaia di tonica. Ergo maggiore libertà di scelta, gin tonic molto diversi l’uno dall’altro, più difficoltà nel trovare l’abbinamento giusto e, di conseguenza se si vogliono ottenere dei risultati soddisfacenti, maggiore impegno necessario. In compenso si può dire che non esiste il Gin Tonic ma esistono i Gin Tonic.

Il Martini cocktail è davvero per bevitori raffinati?
Boh. Esteticamente di sicuro, ma dipende molto anche da cosa si intenda per raffinati. Forse lo si ritiene raffinato perché è stato amato da molte celebrità e questo ha alimentato la sua leggenda. Di certo tenere in mano il classico bicchiere da Martini o il Nick & Nora, percepirne già al primo sguardo la temperatura, sentirlo scendere a piccoli sorsi come tante piccole lame di ghiaccio è un piacere che va provato almeno una volta nella vita. Ma è anche un drink - alcolicamente parlando - piuttosto impegnativo. La scrittrice americana Dorothy Parker non a caso scrisse: “Adoro farmi un Martini, massimo due. Al terzo finisco sotto il tavolo, al quarto sotto il mio ospite”.

Quanto è italiano il Negroni e quanto rappresenta un approccio maturo alla mix azione?
Della maggior parte dei cocktail più famosi, quando se ne indaga la storia, si scoprono almeno due o tre versioni diverse. Anche in ciò risiede il grande fascino che questo mondo esercita sul sottoscritto, ma sul Negroni c’è poco da discutere. Nasce a Firenze, su richiesta di un nobile italiano, quindi… Nel tempo è diventato poi uno dei cocktail più popolari al mondo, credo piaccia perché è un equilibrio perfetto tra il dolce e l’amaro con quella spinta alcolica del gin che lo rende praticamente perfetto.

Un grande whisky è sprecato in miscelazione? O trasforma un cocktail in opera d’arte?
Personalmente non metterei mai un single malt con trent’anni di invecchiamento in un cocktail, più che uno spreco non credo sia necessario. Stesso discorso per il rum o per altri distillati che passano oltre un decennio in botte. Però ammetto che ci possano essere delle eccezioni. La mixology è una scienza esatta che si lascia plasmare o modificare, ma le scelte devono essere motivate. E il fatto che si usi un whisky da centinaia di euro in un cocktail solo per atteggiamento, per “tirarsela” insomma, non è un motivo valido.

Veniamo al più italiano dei distillati… la grappa in miscelazione funziona o no? Perché i bartender non sono tutti d’accordo? Qual è la storia più interessante su questo fronte?
Una volta per tutte… sì, la grappa può funzionare in miscelazione. Non sarà facile, ma esistono centinaia di grappe diverse in circolazioni - giovani e invecchiate, aromatiche o meno, morbide o secche. C’è l’imbarazzo della scelta e, con un mosaico così ampio di profumi e di sapori, le chance di creare un grande cocktail ci sono. Come del resto ha dimostrato Vento, il primo cocktail con la grappa a guadagnarsi un posto nella cocktail list ufficiale della International Bartenders Association.

Sembra che il brandy funzioni oggi come base di una miscelazione molto easy in voga tra i rapper americani… è un oltraggio?
I rapper americani possono bersi quello che gli pare, in fondo abbiamo attraversato anche il periodo vodka e Red Bull. Ma il gusto è una delle (poche ormai) isole di libertà individuale. Per cui se ti piace un drink a base di brandy è giusto che tu lo scelga. L’importante è farsi guidare dal proprio palato non da quello degli altri.

Ci sono nobili distillatori che denigrano l’utilizzo dei propri prodotti mescolati con volgari bibite commerciali e oltraggiati da insalate botaniche. Eppure il consumo miscelato è spesso essenziale per fare mercato…
Chi beve gin liscio oppure on the rocks? Forse qualche anziano signore in pensione dalla Marina britannica… Il bere miscelato è alla base delle fortune del gin, ma anche della riscoperta e moltiplicazione dei vermuth, dei bitter e della moltiplicazione in modalità conigliera delle toniche e delle bevande sodate. Sulle insalate botaniche è un discorso diverso: ogni tanto si sa che in curva si può sbandare, ma a parte questo il bere miscelato è il volano principale per il consumo dei distillati e dei liquori. Se ne sono accorti anche i produttori di grappa.

Maestrelli, la mixology italiana e il mercato

A proposito di mercato, come sta oggi il mondo mixology? È in ascesa, ha raggiunto una stabilità conservatrice o ha perso il proprio appeal?
Secondo me è ancora in ascesa. Il grande pubblico sta ancora muovendo i primi passi nella “giungla” della mixology. Certo oggi vanno per la maggiore Negroni, Americano, Gin Tonic e Spritz, ma ci sono una quantità incredibile di cocktail da riscoprire e valorizzare. I primi che mi vengono in mente sono il Last Word, il Manhattan, l’Aviation e il Red Hook.

Esiste una scena italiana e quanto è legata alla scena internazionale?
L’Italia ha, non solo storicamente, una grande scuola di bartender come l’Aibes, ma è anche abituata a vedere tra i protagonisti di fama mondiale degli italiani: penso ad Agostino Perrone, a Simone Caporale, a Peter Dorelli, Salvatore Calabrese, Giacomo Giannotti e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Nasciamo in un Paese che ha creato i bitter e i vermouth più noti e diffusi e abbiamo una lunga tradizione (e predisposizione) per l’alchimia dei sapori e per il savoir-faire che fanno di un bartender un grande bartender. Oggi poi lo scambio di influenze e le connessioni tra bartender si sono moltiplicate all’inverosimile tra eventi come Tales of the Cocktail, Bar Convent Berlin, Athens Bar Show e le varie guest che fanno viaggiare i bartender in tutto il mondo.

Alcol e giovani: se il vino soffre sono davvero i cocktail a stare meglio? Quanto si conciliano giovani e qualità?
Giovani e qualità spesso non si conciliano molto, ma questo è il lavoro che saremmo tutti chiamati a svolgere. Bere alcol in quanto alcol è da idioti. L’ho già detto e lo ribadisco: si beve per stare insieme, per staccare dai ritmi della giornata, ma lo si dovrebbe fare per apprezzare il contesto. I cocktail sono oggi di moda da un lato perché, almeno per i giovani, costituiscono una novità e quindi è più “cool” bere un Americano o un Negroni piuttosto che un calice di vino, poi ci sono ragioni dettate dalla ciclicità delle mode stesse e dal fatto che la preparazione del cocktail conferisce un valore aggiunto a ciò che hai nel bicchiere. Qualcuno l’ha fatto per te, in diretta. E se poi un po’ ne capisci, puoi anche fare delle richieste personalizzate, chiedere un Martini come lo vuoi tu non come te lo preparerebbe di default il bartender. È un plus che il vino o la birra non possono permetterti.

Maestrelli, alla ricerca del cocktail perfetto

C’è invece qualcosa che può ancora sconvolgere un vecchio lupo da bancone come te?
Lo sconvolgimento appartiene ai giovani e ai babbei. Io purtroppo non appartengo più alla prima categoria e mi sforzo tutti i giorni di non entrare nella seconda. Diciamo che mi strappano un sorriso quelle drink list che vogliono stupirti a tutti i costi, la ricerca dell’iperbole organolettica che spesso si traduce in delusione e le decorazioni old style, gabbiani in volo fatti di scorza d’arancia, delfini danzanti sulla cresta dell’onda, incisioni artistiche di cetrioli, palafitte di frutta e fiori di vario genere che mi obbligano a perdere tempo per rimuoverle se voglio evitare di cavarmi un occhio.

Qual è il cocktail peggiore che hai avuto modo di (o sei stato costretto a) provare nella tua carriera?
Direi uno dei miei. Ricordo un Cosmopolitan dal colore inquietante, un rosa lattiginoso che lo faceva sembrare una medicina. Al gusto non era poi così malvagio, ma l’aspetto… Poi una volta a Bruxelles, in un cocktail bar dalla drink list particolarmente creativa, mi lanciai in un drink che sembrava uscito dalla mente malata di un Charlie Manson dello shaker: imbevibile. E alcuni “aperitivi della casa” che avrebbero fatto bene a restarsene… a casa loro.

E il più convincente/coinvolgente?
Diversi e molto spesso sono quelli con pochi ingredienti. Quasi sempre sono cocktail nati decine di anni fa e che probabilmente risentono degli innumerevoli tentativi di perfezionamento. Ma la perfezione vive nei dettagli: una goccia in più o in meno, un grado di temperatura di troppo e l’equilibrio si spezza. Un cocktail perfetto è come un elefante che si regge su un filo di ragnatela.

Mixology at home… è davvero un trend significativo nel post-covid?
Ne sono fortemente convinto e sostengo che questo trend non penalizzi i cocktail bar e i bartender professionisti, anzi li rafforza perché tanto a casa non riuscirai mai a essere alla loro altezza. Ma farsi un cocktail a casa ha un che di zen, ti rilassa, ti distoglie dai pensieri della giornata, ti costringe a prestare attenzione ai singoli movimenti necessari e ti dona una sensazione di benessere. Poi, se il risultato è discutibile, esci e vai al bar.

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Alberto Lupini


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