I vini di Casale del Giglio, dove antico e moderno si incontrano
Casale del Giglio, nell'agro-pontino, unisce tradizione e innovazione nel vino. Dai rossi francesi ai bianchi autoctoni, una cantina contemporanea che celebra il territorio e la qualità
Un casale di campagna in pieno agro-pontino, non certo l’area laziale più vocata per la viticoltura, ma sicuramente un luogo ideale per una scommessa impegnativa come quella intrapresa da Antonio Santarelli nel 1985, che nella suggestiva tenuta familiare di Casale del Giglio, fra Aprilia e Latina, decide, dopo aver affiancato per anni il papà Dino, di fare il salto di qualità e passare da consolidato rivenditore di vino (la storica enoteca-ristorante di famiglia in Piazza Capranica 99 a Roma) a produttore.
Grazie ai preziosi consigli dell’enologo trentino Paolo Tiefenthaler, adotta la tecnica della zonazione, sperimentando su di un campione di tre ettari (sui 164 vitati) le potenzialità di 60 vitigni differenti, prima di battezzare quelli più adatti al microclima dell’agro-pontino.
Casale del Giglio: una gamma di etichette unica
Da tale lungimirante visione nasce la vasta gamma di etichette di Casale del Giglio che si permette il lusso di parlare francese nei rossi con Petit Verdot o Syrah come nei bianchi con Viognier e Petit Manseng, concedendosi addirittura inusuali accenti iberici di Tempranillo (probabilmente l'unica azienda italiana a vinificarlo in purezza) e felici riscoperte di uve autoctone come il Bellone e la profumatissima Biancolella. Casale del Giglio è un’elegante residenza di campagna, con parco alberato e prato inglese che circondano la bella villa anni ‘30 con i vigneti a ridosso a far da cornice.
Casale del Giglio: una cantina contemporanea e ricercata
La cantina vira sul contemporaneo, con particolari ricercati come la rigorosa barricaia interrata dove riposano i rossi della casa come il bordolese “Madreselva” o “Mater Matuta”, che prende il nome dall’omonimo tempio dedicato alla divinità romana protettrice delle nascite, che era inserito nell’area archeologica dell’antica Satricum.
Il “vino della dea” è un blend per l’85% di Syrah e per il 15% di Petit Verdot e si presenta con un rosso rubino intenso, in cui i profumi di confettura di more e cacao si schiudono in effluvi balsamico-resinosi e note speziate. Affinato 24 mesi in barrique ha struttura e profondità, con tannini ben smussati e bella freschezza di sorso. Da abbinare ad un goulash di manzo o alla coda alla vaccinara.
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Alberto Lupini