L'Etna studia da fine wine, ma «fugga dalle mode e cresca in qualità media»

Il Consorzio del Vino Etna, diretto da Maurizio Lunetta, affronta sfide climatiche e fluttuazioni di mercato con un approccio innovativo e sostenibile. Investendo in varietà antiche e una produzione limitata , il Consorzio punta a rendere i vini dell'Etna dei "fine wines" italiani, preservando coesione tra produttori e un’identità vinicola unica

02 novembre 2024 | 05:00
di Giambattista Marchetto

Facile sorridere quando tutto gira per il verso giusto, si potrebbe obiettare. Eppure nel mondo del vino non funziona così, perché i mercati sono fluttuanti e le mode transitorie, così come i consumatori cambiano pelle. Ecco perché sull'Etna non si cullano sugli allori, ma cercano nuove strategie per rimanere sulla cresta dell'onda. Il Consorzio punta tutto sulla sintonia tra i produttori, che dimostrano consapevolezza nel tenere strette le maglie della denominazione. E intanto - come conferma il direttore Maurizio Lunetta nell'intervista a Italia a Tavola - i vini del vulcano studiano da fine wines.

Sicilia, un'annata difficile: si salva solo l'Etna

Direttore Lunetta, partiamo dalla Sicilia. Come sta il vino della regione in questo momento, visto ovviamente dall'Etna?
Il vino siciliano, dal punto di vista produttivo, ha vissuto un secondo anno drammatico. Nel 2024 c'è una produzione più bassa di quella del 2023, che era già un'annata strana. L'unica zona che si è salvata è l'Etna, grazie alle piogge di fine luglio-agosto, che hanno consentito di ritornare a una produzione simile a quella del 2022, quindi circa 80mila quintali. Tuttavia, a livello regionale, sono stati due anni difficili, mettendo in crisi l'approvvigionamento, soprattutto per le cantine cooperative. Non sono anni semplici.

Questo avviene mentre la domanda del mercato è meno brillante, anche se il rallentamento non tocca l'Etna. Anzi…
Sì, ma noi siamo solo l'1,2% della superficie vitata regionale, quindi il fatto che l'Etna regga in termini di domanda non risolve i problemi della Sicilia. Sarebbe bene che l'intera isola crescesse insieme all'Etna.

Etna, un mondo a parte

Il vulcano sembra un mondo a parte, anche rispetto ad altre importanti territori del vino italiani ed europei: è così?
In effetti abbiamo visto i dati, ad esempio quelli relativi agli Stati Uniti che ci ha fornito l'osservatore Uiv, e l'Etna tiene anche su un mercato estero. Non perdiamo come altri rossi importanti italiani ed europei.

Qual è il segreto?
Siamo una denominazione piccola, che ha fatto scelte precise per contenere la quantità prodotta, bloccando i nuovi impianti e regolamentando l'iscrizione alla Doc. Non cresceremo più come negli ultimi 10 anni, per non andare in over-produzione. Nel 2024 perderemo un 10-15% di produzione imbottigliata, perché abbiamo perso il 42% di uve nel 2023. Teniamo grazie al fatto che sia bianchi che rossi vengono imbottigliati anche 2-3 anni dopo. Siamo una denominazione in salute, ma stiamo cercando di anticipare i problemi.

Parlando di innovazione, su cosa state investendo?
Stiamo lavorando con l'Università di Catania sulle varietà antiche. Ne è emersa una dozzina, che abbiamo già impiantato sull'Etna. Facciamo microvinificazioni per studiare e garantirci un Etna per i prossimi 100 anni. Non sappiamo se il Nerello e il Carricante supereranno il cambiamento climatico, ma stiamo valutando altre varietà come Terribile, Zinneuro o Minnella nera. Dobbiamo lavorare sul nostro serbatoio genetico per mantenere la viticoltura per i prossimi 100 anni.

E rispetto alla sostenibilità?
C'è un'attenzione crescente. Io poi ho un pallino per la sostenibilità di denominazione. L'evoluzione della sostenibilità non riguarda solo la singola cantina, ma tutto il territorio. Esistono già degli standard hanno, come quelli settati a Montepulciano. Bisogna affinare e rendere la sostenibilità sempre più comunicabile.

Etna, la strada verso il fine wine

In che modo l'Etna sta diventando o può essere percepito come un fine wine?
L'Etna non è moda, ma vogliamo che diventi un classico del vino italiano, come Brunello o Barolo. Per diventare un fine wine, dobbiamo migliorare la qualità dei vini non di contrada. Quando raggiungeremo una qualità più alta sui vini base, possiamo definirci un fine wine in senso completo.

Quanto restituisce il vino al territorio?
Il vino è il motore economico dell'intero territorio etneo. Abbiamo visto tanti giovani ritornare a coltivare i terreni abbandonati dai padri. L'Etna è un brand potente, e dobbiamo essere bravi a utilizzarlo a nostro favore, approfondendo le tematiche su vino e territorio.

Etna e giovani: in vigna sono tornati i nipoti a prender le vigne dei nonni, ma come vede il rapporto con i giovani consumatori?
La vedo un po' più dura, nel senso che non possiamo certamente noi determinare i consumi della generazione Z. Noi come Etna subiamo questa situazione, non possiamo fare molto di più. Noi guardiamo soprattutto a una fascia un po' più matura, un po' più altospendente ovviamente, che va oltre l'aperitivo o lo spritz con il nostro spumante. Però siamo attenti e sappiamo che le tendenze cambiano ogni 5 anni, per cui siamo sempre in una fase di transizione.

Etna, tra presente e sfide future

C'è una sfida particolarmente complessa all'orizzonte?
Il rischio è che l'Etna diventi di moda, e la moda poi finisce. Ci sono troppi investimenti in aree non tutte coltivabili a vigneto. Abbiamo gestito, ma non possiamo impedire che si pianti un nuovo vigneto. Possiamo solo decidere se iscriverlo o meno alla Doc Etna.

E c'è armonia sull'Etna tra i produttori?
Sì, c'è un'ottima armonia. Le decisioni vengono prese all'unanimità, come è avvenuto per il blocco dei vigneti. I produttori dell'Etna sono coscienti di avere in mano qualcosa di importante e sarebbe un peccato dividersi. L'armonia fa la differenza, perché permette di prendere decisioni importanti per il futuro. Noi vediamo grandi denominazioni che si spaccano per litigi o per interessi divergenti. Noi stiamo cercando di portare un'Assemblea, solamente quello che ci unisce, andando a smussare le divergenze ma con la condivisione senza prove di forza. D'altra parte non abbiamo cantine cooperative, che sono quelle che in molte denominazioni poi hanno un po' più voti e possono anche influenzare molto. Noi abbiamo un sistema di votazione per cui il più grande al massimo pesa 9 voti e il più piccolo ne vale 3. Questo fa sì che le prime dieci cantine non determinino nulla, ma ci voglia un gran numero di produttori, anche piccoli, per avere una maggioranza in Assemblea. Fino ad adesso non abbiamo avuto bisogno di questo, perché siamo andati a colpi di unanimità o quasi. Ecco il ruolo del Consorzio: evitare spaccature e costruire sinergie.

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Alberto Lupini


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