«Regole eque per un mercato leale» Fipe promuove una raccolta firme

Lanciata una raccolta di firme a tutela di una ristorazione che dia garanzie ai consumatori. Italia a Tavola sostiene l'iniziativa. Dopo le contestazioni, ora Fipe scende in campo per una battaglia senza etichette . Sul tavolo la richiesta di regole eguali per tutti al fine di non danneggiare lo sviluppo economico, sociale e culturale della Cucina italiana

22 maggio 2019 | 16:23
Come già denunciato, Fipe lamenta il fatto che non tutti nell’ambito della ristorazione rispettano le regole per cercare di risparmiare. Ma, peggio, nessuno li punisce. Ad essere puniti, piuttosto, sono gli imprenditori che, al contrario, adempiono a tutti i loro doveri legali dovendo, di conseguenza, sobbarcarsi costi più alti. Ma, alla fine di tutto questo circolo vizioso, c’è l’aspetto che Fipe vuole condannare maggiormente: un corto circuito nel mercato (poco leale) che danneggia la Cucina italiana.


Una presa di posizione perfettamente in linea con le posizioni da tempo assunte da Italia a Tavola che non a caso sostiene apertamente l'iniziativa che si presenta senza etichette di schieramenti e aperta al contributo di tutti. Il manifesto è stato inviato ai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini e al ministro alle Politiche agricole Gian Marco Centinaio.



Il tutto si è generato da quando il settore è salito alla ribalta e la torta ha iniziato a dover essere spartita tra addetti ai lavori in continua crescita (alcuni anche ai limiti della legge, come gli home restaurant, altri in grado di cambiare completamente le regole di mercato del settore come tutto ciò che si muove online e che spinge in altissimo il food delivery). Di mezzo però ci va la qualità del servizio proposto dalle attività e anche dai contenuti serviti dagli stessi ristoranti, bar, pubblici esercizi, ma anche il mondo dell'agricoltura. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la sentenza del Consiglio di Stato che ha equiparato a ristoranti, ma senza gli obblighi conessi, gelaterie, pininoteche e kebab.

Come spesso accade la soluzione potrebbe trovarsi nel buonsenso. Fipe non lo dice chiaramente, ma tra le righe si legge la lamentela relativa al fatto che non basta che un locale venga identificato, ad esempio, come “pubblico esercizio” a livello tecnico. Bisognerebbe, al contrario, capire come quel locale lavora, cosa offre, come lo offre, se c'è un servizio la tavolo, di quante persone dispone, di quali strumenti dispone. Fipe ha lanciato l’appello chiedendo di firmarlo per sostenere la propria richiesta e presentarsi alle istituzioni con fondamenta solide. Di seguito il testo integrale dell’appello.


La cucina italiana: orgoglio degli italiani, ispirazione per gli stranieri, ali e radici per chi viene e torna nel nostro Paese. In numeri, la nostra ristorazione vale 300mila imprese, 85 miliardi di fatturato e 43 miliardi di valore aggiunto all’anno per 1 milione di occupati. Meno puntuale, ma non meno strategico, il valore intangibile del settore in termini sociali, storici, culturali, antropologici e come volano dell’attrattività turistica e dell’intera filiera dell’agroalimentare del Paese. Ora, poi, il settore sta vivendo una popolarità senza precedenti, con gli chef famosi come attori e contesi come influencer, a dimostrazione che la cucina - da sempre strumento di comunicazione - è appetibile anche come strumento di consenso.

Bene, insomma, ma non benissimo. Questi risultati sono la punta di un iceberg fatto del lavoro di centinaia di migliaia di imprese che, con la loro professionalità, creatività e quotidianità, fanno la forza di questo settore, che riceve a parole grandi pacche sulle spalle, ma nei fatti rischia oggi un impoverimento senza precedenti.
 
Ogni giorno nelle scelte politiche si incentivano settori che effettuano di fatto somministrazione, senza essere sottoposti alle stesse regole che si applicano alla ristorazione e ai pubblici esercizi in generale.

Ci riferiamo agli operatori del settore agricolo, ai circoli privati, al terzo settore, ai negozi di vicinato, agli home restaurant, allo street food etc. Perché se non ti chiami “pubblico esercizio”, non importano i servizi igienici, la presenza di spazi per il personale, gli ambienti di lavorazione idonei, la maggiorazione sulla Tari e il rispetto delle normative di Pubblica Sicurezza.

La disparità di condizioni non genera nel mercato soltanto concorrenza sleale, ma finisce per impoverire il mercato stesso nel momento in cui le attività di ristorazione chiudono, magari per reinventarsi in esercizi più semplici, dove tagliare i costi del servizio e di preparazione, con effetti immaginabili sulla qualità del prodotto, sui rischi alimentari dei consumatori, sull’occupazione del settore e l’attrattività delle nostre città.
 
Non chiediamo meno regole: chiediamo che vengano applicate le stesse regole per la stessa professione, anche a tutela e a salvaguardia dei 10 milioni di clienti che ogni giorno frequentano i Pubblici Esercizi. Non chiediamo meno concorrenza: auspichiamo, anzi, che ce ne sia sempre di più, ma per migliorare il mercato, non per renderlo più fragile.

Non chiediamo privilegi o corsie preferenziali: chiediamo alle Istituzioni più attenzione e un tavolo, promosso dai ministeri competenti, con la partecipazione dei diversi attori della filiera - che apparecchi una visione strategica complessiva e consapevole per il settore.
 
I sottoscrittori di questo appello hanno fatto degli investimenti qualitativi e del rispetto delle regole, un punto di merito e uno stimolo per migliorare la qualità del settore, tutelando le scelte di milioni di consumatori.

È così che vogliamo difendere la categoria, quella delle imprese della ristorazione: salvaguardando il contributo che offre all’economia italiana, un contributo di varietà e, soprattutto, di qualità, tratto distintivo del Food in Italy che tutti conosciamo. E amiamo.

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Alberto Lupini


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