Pranzi di lavoro, 10 milioni in meno I buoni pasto rischiano l'estinzione
I ticket non solo stanno scomparendo sommersi dallo smart working, ma non danno più nemmeno ossigeno agli esercizi per via di commissioni elevate arrivate ormai al 20%. La denuncia di Fipe
23 luglio 2020 | 10:50
Il lockdown prima e lo smart working poi hanno messo ulteriormente in ginocchio i ristoratori che puntavano a ripartire dai pranzi di lavoro ed invece si sono ritrovati con i tavoli vuoti. Niente è più come prima e tra le innumerevoli conseguenze di queste due situazioni c’è anche la questione, già parecchio intricata, dei buoni pasto.
I pranzi di lavoro quotidiani che sono scomparsi dopo lo sblocco dei locali rispetto alla media sono 10 milioni. Come sarà a settembre nessuno lo può dire anche se le previsioni non sono del tutto rosee considerando che il Governo sta puntando a prolungare la durata dello smart working, scelta a dir poco discutibile, soprattutto nella pubblica amministrazione.
Ma il problema, anche se tutto dovesse tornare alla normalità, è che per gli esercenti i buoni pasto non sono ossigeno per le casse. Facendo due conti emerge che le commissioni nette da pagare per bar, ristoranti, pizzerie e grande distribuzione, ammontano al 20%. Fatto 7€ il ticket medio che un lavoratore riceve ogni giorno, l’incasso “pulito” dell’esercente è di 5,6 euro. Solo per il 20% di commissioni, alle quali poi vanno aggiunte le tariffe del pos e i lunghi tempi per la riscossione (45 giorni se va bene).
La situazione diventa dunque insostenibile come denuncia anche Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi Fipe: «Il ticket - ha spiegato ad Avvenire - gode di una totale decontribuzione e defiscalizzazione. È già quindi scontato, ma lo “sconto” è previsto per chi deve incassare. Insomma i buoni pasto non convengono agli esercenti che, infatti, sono restii ad accettarli».
Chi sorride sorniona invece, come spesso accade, è la grande distribuzione che negli ultimi tempi si è buttata a capofitto su questo mercato generando una concorrenza altissima. «Non abbiamo numeri precisi - spiega Sbraga - ma si stima che il 70% dei buoni finisca nella Gdo e solo il 30% nei pubblici esercizi. E poi c’è il problema dei pos che dovrebbero essere unici per tutti i ticket elettronici; ma così non è e i tempi in cassa si allungano, le commissioni lievitano.
La questione è intricata già da tempo come detto perché tutto parte dal fallimento di Qui!Group, l’azienda leader dei buoni pasto da erogare alla pubblica amministrazione. La sua scomparsa ha generato un “buco” da 200 milioni di euro ai danni degli esercizi commerciali convenzionati. Di seguito Fipe con altre associazioni di settore si erano date da fare per congelare la lievitazione delle commissioni e poi ancora per garantire il valore nominale del ticket lungo tutta la filiera. Nel mirino era finita anche la Consip, centrale unica di acquisto per tutta la pubblica amministrazione, per le gare da essa bandite e per una mancata attenzione ai campanelli d’allarme lanciati dalle associazioni proprio su Qui!Group.
Ristoranti senza più pranzi di lavoro
I pranzi di lavoro quotidiani che sono scomparsi dopo lo sblocco dei locali rispetto alla media sono 10 milioni. Come sarà a settembre nessuno lo può dire anche se le previsioni non sono del tutto rosee considerando che il Governo sta puntando a prolungare la durata dello smart working, scelta a dir poco discutibile, soprattutto nella pubblica amministrazione.
Ma il problema, anche se tutto dovesse tornare alla normalità, è che per gli esercenti i buoni pasto non sono ossigeno per le casse. Facendo due conti emerge che le commissioni nette da pagare per bar, ristoranti, pizzerie e grande distribuzione, ammontano al 20%. Fatto 7€ il ticket medio che un lavoratore riceve ogni giorno, l’incasso “pulito” dell’esercente è di 5,6 euro. Solo per il 20% di commissioni, alle quali poi vanno aggiunte le tariffe del pos e i lunghi tempi per la riscossione (45 giorni se va bene).
La situazione diventa dunque insostenibile come denuncia anche Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi Fipe: «Il ticket - ha spiegato ad Avvenire - gode di una totale decontribuzione e defiscalizzazione. È già quindi scontato, ma lo “sconto” è previsto per chi deve incassare. Insomma i buoni pasto non convengono agli esercenti che, infatti, sono restii ad accettarli».
Chi sorride sorniona invece, come spesso accade, è la grande distribuzione che negli ultimi tempi si è buttata a capofitto su questo mercato generando una concorrenza altissima. «Non abbiamo numeri precisi - spiega Sbraga - ma si stima che il 70% dei buoni finisca nella Gdo e solo il 30% nei pubblici esercizi. E poi c’è il problema dei pos che dovrebbero essere unici per tutti i ticket elettronici; ma così non è e i tempi in cassa si allungano, le commissioni lievitano.
La questione è intricata già da tempo come detto perché tutto parte dal fallimento di Qui!Group, l’azienda leader dei buoni pasto da erogare alla pubblica amministrazione. La sua scomparsa ha generato un “buco” da 200 milioni di euro ai danni degli esercizi commerciali convenzionati. Di seguito Fipe con altre associazioni di settore si erano date da fare per congelare la lievitazione delle commissioni e poi ancora per garantire il valore nominale del ticket lungo tutta la filiera. Nel mirino era finita anche la Consip, centrale unica di acquisto per tutta la pubblica amministrazione, per le gare da essa bandite e per una mancata attenzione ai campanelli d’allarme lanciati dalle associazioni proprio su Qui!Group.
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