Paolo Griffa, cuoco e pasticcere stellato: talento giovane e poliedrico
È giovane, 29 anni, ma si è già dimostrato in grado di ottenere grandi traguardi, come la stella Michelin nel 2019. Executive chef al Petit Royal di Courmayeur, punta già alla seconda stella
13 dicembre 2020 | 07:39
di Nadia Afragola
Paolo Griffa
Chi è Paolo Griffa?
Sono un giovane chef italiano che ha viaggiato molto in giro per il mondo. Mi sono confrontato con tante culture e tante cucine, ed ora, di ritorno in patria, ho trovato una nuova casa, il Petit Royal a Courmayeur, dove sono finalmente riuscito a costruire una cucina che parte dalla mia identità. Nasco pasticcere, per poi diventare cuoco. Un passaggio che si nota tanto nei miei piatti. Sono molto legato al territorio dove lavoro, che cambia di volta in volta in base a dove mi trovo, nel rispetto della territorialità. Penso sempre che la gente che viene a mangiare nel mio ristorante voglia trovare dei prodotti locali, tipici del luogo. Anche se non ne faccio una questione di principio. La territorialità non deve essere un tabù. Nel senso che se trovo un prodotto più buono in un’altra zona non lo escludo a priori. L’importante è che tutto sia coerente con la mia filosofia e che la materia prima sia coltivata o prodotta con etica.
Quando ha capito che la sua strada sarebbe stata quella della cucina?
La mia famiglia è numerosissima, e quando ci si ritrovava tutti intorno a un tavolo, eravamo almeno 30 persone. Essendo sempre stato il più piccolo, mi toccava stare in cucina con gli adulti mentre preparavano. Era un momento di convivialità stupendo. Ho dei ricordi indelebili di quei pranzi e di quelle cene. Andare a tavola, stare insieme ai parenti, sorridere, condividere storie e spensieratezza. E rendere tutto questo un lavoro, oggi, è una cosa per me impagabile. Cucinare è un atto di generosità, perché rendi felice qualcuno, ed è un mestiere che non ti annoia mai.
Chi, nel suo percorso, ha lasciato un segno profondo?
Tutte le esperienze nel bene o nel male ti lasciano qualcosa. Partendo da Davide Scabin al Combal.Zero a Rivoli, che mi ha insegnato il culto della forma; Marco Sacco al Piccolo Lago mi ha insegnato a fare i numeri, cioè a replicare la qualità per mille persone senza perdere in costanza. Il periodo francese ha completato la mia formazione. Serge Vieira lo associo al rigore puro e alla dedizione assoluta. Poi ci sono stati gli stage, come quello da Inaki Aizpitarte a Le Chateaubriand, che era un bistrot che proponeva una cucina da mercato, fresca e non troppo complicata che mi ha insegnato a valorizzare la materia prima; ho imparato tutta la parte dei fermentati e dei vegetali con Torsten Vildgaard al ristorante Studio di Copenaghen. Poi leggo tantissimo, colleziono libri di cucina. I miei miti restano i fratelli Adrià, ma gli spunti da cui attingere sono davvero tantissimi.
Paolo Griffa
Qual è stato il primo piatto con cui si è confrontato?
Quasi sicuramente una torta ma ero troppo piccolo per ricordare che tipo fosse, poi ricordo gli gnocchi che facevo con la nonna, per le feste.
Perché a un certo punto ha anteposto la cucina alla pasticceria?
Questa mia doppia “formazione” è un punto di forza da un lato, ma dall’altro, c’è chi non mi ritiene né un pasticcere né un cuoco, proprio perché sono entrambe le cose. Per me non significa non avere un’identità, ma essere poliedrico. Io nasco pasticcere e adoro i dolci, come adoro la chimica e la fisica applicate in un dessert. Seguire solo la via della pasticceria mi limitava. In Francia ho sentito fortemente la mancanza delle basi in cucina, il che mi ha spinto verso l’approfondimento, essendo io un instancabile curioso. Momento chiave di questo mio salto è stato quando sono approdato alla corte di Davide Scabin. Lui, che odia lo zucchero, mi ha dato gli strumenti per capire il dessert da ristorazione, che deve essere il proseguimento di un menu degustazione, non qualcosa di dolcissimo e slegato dal resto.
Parla spesso di cucina espressa, cosa intende?
Tante preparazioni vengono fatte in continuità tutti i giorni e moltissime vengono finite al momento. Nel mio menu non scegli nulla. Diamo dei fili conduttori, delle idee, delle declinazioni sulle quali noi possiamo fare tutto. C’è la declinazione viaggi o quella né carne né pesce, e tante altre. Quel filo conduttore scelto dal cliente sarà presente in tutto il menu, di cui decido anche il numero di piatti. È come avere un tema libero su cui posso dire la mia ogni sera, per ogni cliente. Anni fa proponevo un menu che si chiamava “arancione”. Il colore predominante era quello, dato da prodotti stagionali come la zucca. A un certo punto, nel mezzo della degustazione arrivava un piatto in bianco e nero. La gente rimaneva spiazzata perché non ritrovava lo stesso filo conduttore, ma in realtà la salsa era fatta con dei vini “arancioni” (vini ossidati). La cucina deve stupire e divertire, oltre ad essere impeccabile e buona e per avere anche questa parte di divertimento, c’è bisogno di un servizio in sala importante.
Sala e cucina parlano la stessa lingua?
C’è sempre un po’ di rivalità tra i due mondi. Ma un buon modo per dissipare queste incomprensioni sta nel far provare ad uno il lavoro dell’altro. Ad esempio, in estate quando andiamo a raccogliere le erbe spontanee o nell’orto, coinvolgo non solo la cucina, ma anche la sala. Questo aiuta a raccontare meglio i piatti perché li vivi dall’inizio. Viceversa, la brigata deve conoscere i rituali della sala, il posizionamento e la pulizia delle posate, lo stiraggio delle tovaglie, la ricerca dell’ordine. Basta instillare la curiosità nei tuoi ragazzi. Se manca la cura nel racconto del piatto, ne perde la cucina stessa. In passato non c’era contatto tra i due mondi e paghiamo ancora quel retaggio, ma in realtà lo stiamo superando.
Paolo Griffa con la brigata di cucina
Di quante persone si compongono le sue brigate, di cucina e di sala?
Nel 2017 eravamo tre in cucina e tre in sala. Negli anni siamo aumentati parallelamente. Ad ogni elemento in più in cucina, ne corrispondeva uno in sala. Oggi siamo 7 e 7. È una squadra che si completa vicendevolmente e il lavoro a contatto con i clienti è importantissimo, tanto che non esco mai in sala per non distogliere l’attenzione dal lavoro dei ragazzi.
Tutto quello che servite è prodotto da voi?
Tutto il possibile è prodotto da noi. Ma ci stiamo organizzando per realizzare anche l’impossibile.
La stella Michelin è stata una sorpresa?
Ho praticamente sempre lavorato in ristoranti stellati, quindi il mio modo di lavorare è quello, ha quell’impronta. È normale che punti al raggiungimento di una stella Michelin, e poi della seconda e della terza nella tua carriera se hai avuto affinità praticamente sempre e solo con quel mondo. Sarebbe strano non aspettarsela se uno dedica tutto sé stesso per raggiungerla.
Quindi, guardando al futuro, aspettiamo la seconda stella?
Quando sono arrivato a Courmayeur ho rivoluzionato tutto il locale. La gente all’inizio faceva fatica ad entrare in un Hotel 5 Stelle Lusso per mangiare. Poi è arrivata la stella, e abbiamo iniziato ad essere pieni tutti i giorni. Venivano i francesi e gli svizzeri oltre che agli italiani. Il lavoro è cresciuto pian piano in tutti i sensi, in qualità e in quantità. La fase successiva sarà aumentare ancora di più il livello e migliorare i dettagli, che sono quelli che poi fanno la differenza. È una crescita continua che mira a dei risultati dichiarati. Le stelle non arrivano per caso e all’improvviso.
Chi è un critico per lei?
Una persona che deve aver provato tante cucine. Deve avere sia la conoscenza delle materie prime e delle zone di provenienza, sia di come funzioni una brigata e una sala. È una persona intelligente che capisce come lavori e cosa c’è dietro un piatto. Il critico non si ferma al singolo elemento, ma analizza da lontano il complesso.
Bavette di bue grasso di Carrù
Parliamo di etica: è solo di moda o c’è anche sostanza?
Alcuni usano l’etica solo quando fa loro comodo. Non riguarda solo gli ingredienti, ma anche come li lavorano i fornitori, come li lavoro io nel ristorante e che servizio propongo. L’etica deve essere coerente. Se servo nel piatto prodotti strettamente locali, dovrò fare lo stesso col vino, o con la tovaglia su cui si mangia o con la sedia su cui ci si accomoda. Dovranno essere sostenibili gli orari di lavoro dei ragazzi, come anche l’edificio che ospita il ristorante; deve esserci un controllo sulle dispersioni di calore o sullo spreco illuminotecnico. L’etica è una cosa davvero complessa. Ecco perché non mi presento come un predicatore, ma cerco di fare il massimo, per quanto mi è concesso, nel luogo in cui sono. Perché anche quando utilizzo un tipo di patata coltivata a Gressoney, devo percorrere due ore di macchina per andare a prenderla, pur essendo di fatto un prodotto locale. Quando ti trovi a Courmayeur nel periodo invernale e la neve copre ogni cosa, la materia prima deve arrivare da altre zone necessariamente, anche se durante l’estate cerchiamo di raccogliere e conservare quanti più ingredienti possiamo, per poi usarli in inverno. L’etica non è una questione di bianco o di nero ma di sfumature e di aggiustamenti davvero complicati.
Com’è fare lo chef ai tempi del coronavirus?
È difficile, perché dietro di te c’è una brigata e tanti produttori. E davanti a te c’è una proprietà. Io mi trovo in mezzo. Da un lato devo dare risposte, dall’altro devo recepire direttive e decisioni. C’è un rapporto di stima, fortunatamente, incrollabile sia con la proprietà che con i miei ragazzi, che mi seguono sempre in ogni direzione.
La pandemia cambierà il modo di intendere il cibo?
Per chi come noi ha costruito un’identità solida, non credo cambierà nulla. Per chi invece segue le mode, le cose potrebbero andare diversamente. Continueremo a fare ciò che abbiamo sempre fatto, non mi aspetto un cambio nel riscontro dei clienti, perché anche loro cercheranno sempre le stesse cose. La riprova di questo l’abbiamo avuta alla riapertura a giugno, quando eravamo sempre al completo.
Delivery sì, delivery no?
Se ci fosse un servizio di delivery a Courmayeur, lo utilizzerei di sicuro. Sono a favore ma io, dove sono, non posso permettermelo perché non avrei mercato.
Flower Power
Tecnica, materie prime e tecnologia, in che proporzioni fanno parte della sua cucina?
In proporzioni uguali direi. Uno compensa l’altro. Ci sono piatti in cui l’ingrediente è il fulcro, ma per lavorarlo ci vuole tecnica e la tecnologia ti aiuta in questo processo di trasformazione. Cerco di rimanere aggiornato sulla strumentazione, ho anche attrezzature tipiche da laboratorio che la maggior parte dei ristoranti non ha. La tecnologia permette di migliorare la tecnica, se la sai governare. Il prodotto invece deve essere sempre ottimo, senza mezzi termini.
La tecnologia può camuffare una cattiva materia prima?
Sì, ma con molta e inutile fatica. Se tutte quelle energie che spendo per migliorare un ingrediente le impiegassi su un ottimo prodotto, avrei un risultato superiore e un vantaggio in termini di food cost. E questo si nota specialmente in pasticceria. Se faccio una mousse alla nocciola e uso nocciole di ottima qualità, ne utilizzo meno rispetto ad una di qualità inferiore, andando a pareggiare il costo della materia prima, avendo però un piatto finito che avrà un fortissimo sapore di nocciola, e non appena abbozzato.
C’è un ingrediente che non mancherà mai nella sua cucina, ed uno che invece non entrerà mai?
Non mancherà mai il burro, nonostante dicano tutti che la mia cucina è leggerissima. Il trucco sta nell’usarlo nel modo corretto, con la giusta temperatura, affinché dia la doratura richiesta, senza che lo stesso penetri negli altri ingredienti. Evito di usare l’anice, come anche la liquirizia o la cannella, ma per un gusto personale. Se in un piatto sono necessari, li uso senza problemi.
Tra la messa a punto di un piatto e l’altro ha avuto il tempo di scrivere un libro. Cosa c’è dentro?
La mia pignoleria, quella che mi porta a registrare ogni piatto di ogni cambio menu, corredato di foto, la stessa che mi ha permesso di avere in archivio centinaia di ricette. In un anno ne codifico almeno 100, corredate di descrizione. Quindi, quando mi è stato chiesto di scrivere un libro, gran parte del lavoro era già stato fatto. Il libro poi è stato impostato in modo tale da poter essere riprodotto e non ammirato da lontano. Siamo partiti dal perché di un piatto, per poi passare alla spiegazione delle tecniche, fino alla loro applicazione.
Qual è il suo comfort food?
Il cioccolato. In tutte le sue forme.
Che sapore ha la felicità?
Direi che per il 90% la identifico con il sapore dello Champagne. Perché stappi un certo genere di bottiglie quando devi festeggiare, quando sei in compagnia e in generale, quando stai bene.
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Alberto Lupini