Ospitalità tutta in “zona rossa”. Si poteva fare di meglio

Tutta l'ospitalità si è completamente fermata in quest'anno pandemico. Guardando indietro, possiamo dire che qualche distinzione tra le tipologie di locale avremmo potuto farle . Facciamo tesoro di quest'esperienza e ricordiamoci anche del contributo socio-psicologico che il fuori casa può dare

11 aprile 2021 | 12:00
di Marco Reitano
La pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto durissimo sulla ristorazione. Il settore più colpito è stato proprio quello dell'accoglienza, alberghi e ristoranti hanno pagato il prezzo più alto. In effetti era prevedibile sin da subito: per mangiare e bere vengono meno i dispositivi di prevenzione del contagio (mascherina), e tutti i punti di ristoro sono finiti drasticamente in un unico grande cassetto amministrativo “Red Zone”. Se qualcuno dovesse chiedermi un parere personale a riguardo direi che la questione si poteva gestire meglio. Esiste un valore psicologico/sociale della ristorazione che non è stato affatto considerato. Valutare meglio questo aspetto, il suo peso, il suo impatto sociale, avrebbe potuto alleviare da un lato la depressione da isolamento della popolazione e garantire dall’altro la “sopravvivenza” di tante piccole/medie imprese.



Se alle chiusure del fuori-casa si fosse prestata più attenzione: più benessere e meno contagi clandestini

Il pubblico frequenta bar e ristoranti con l’intento di migliorare il proprio benessere psico-fisico, e diciamo che parlando di cure “palliative” per una stagione pandemica, la ristorazione avrebbe potuto dare un suo ampiamente sottovalutato contributo. Poter frequentare un ristorante con ambienti e personale in completa sicurezza avrebbe di certo diminuito notevolmente la necessità di assembramenti casalinghi/clandestini dove probabilmente alcune norme di sicurezza sono venute a mancare e i rischi di contagio sono stati in alcuni casi più elevati che nei locali pubblici.

Non tutti i locali sono uguali

Mi rendo conto della complessità della gestione legislativa/amministrativa del periodo, ma non posso non sottolineare anche il fatto che nel nostro settore non c’è stata alcuna distinzione, ad esempio, fra cocktail bar, pub, trattoria, fine dining, discoteca, etc. Quando invece questo andava fatto. Siamo stati tutti stretti in un angolo senza alcun schema che prevedesse l’analisi delle molteplici e sostanziali differenze di “sicurezza” tra una tipologia di locale di somministrazione e l’altra. Le critiche in questa direzione sono arrivate da più parti ma, pace, è andata così.

Un errore, ma anche un'occasione di cui far tesoro per il futuro

Anche se molto pesante, l’esperienza è però sempre esperienza: le continue aperture e chiusure non sono state del tutto inutili, e dobbiamo farne tesoro. La capillare raccolta dati durante questa imprevista pandemia ci permetterà in un’eventualità futura di distinguere meglio gli ambienti o le abitudini più rischiose in relazione alle statistiche di contagio raccolte. Questo includerà una più centrata analisi socioeconomica in cui probabilmente i ristoranti non avranno la peggio. Le strategie evolveranno, ci attende un futuro più consapevole, futuro che sarà “colorato” dalle folle di avventori che non vedono l’ora di tornare nei nostri ristoranti del cuore.

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Alberto Lupini


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