Vent’anni e avvertirne il peso: potrebbe essere questa la sintesi di un viaggio di ricerca e consapevolezza che negli ultimi quattro lustri ha visto un aretino di nascita esplorare i meandri della filosofia gastronomica modenese, uscendone sempre vincitore. Luca Marchini, membro di Euro-Toques Italia ha portato il suo ristorante L'Erba del Re (una stella Michelin) due anni oltre la maggiore età. Era il 2003 quando l’elegante locale, situato in un palazzo d'epoca e affacciato su una suggestiva piazza nel centro di Modena, apriva i battenti. Una lunga storia che vede come filo conduttore l'attenzione alle materie prime selezionate e l'equilibrio dei sapori, che si combinano con le esperienze personali del cuoco per creare piatti unici e ricchi di ispirazione.
Vent’anni di grande cucina
La rilettura dei classici della cucina emiliana e italiana, insieme alla creazione di nuove proposte culinarie, hanno reso questo luogo un punto di riferimento per gli amanti della buona cucina a Modena e non solo.
Modenese ma non di nascita. Pienamente integrato o ancora un corpo estraneo?
Dopo trentacinque anni, posso dire di sentirmi modenese a tutti gli effetti. Sono arrivato in questa città a diciassette anni, ho fatto la ragioneria, poi la laurea in Economia e Commercio; ma non è solo una questione di anni: quando credi nel luogo dove scegli di passare la vita, diventi automaticamente parte di esso. La mia evoluzione è totalmente modenese: cultura, cibo, ambiente…
E anche formazione. Se non proprio modenese sicuramente a trazione emiliana.
Assolutamente emiliana. Da Massimo [Bottura, ndr], al quale devo molto in termini di slancio entusiastico, a Jean-Louis Nomicos, dove ho appreso i fondamentali della cucina classica…
A chiudere il cerchio c’è Bruno Barbieri.
Da Parigi all’Emilia per riscoprire il rapporto quotidiano con il cibo. A Bruno basta aprire il frigorifero e guardare cosa c’è dentro per prepararti uno dei piatti più buoni che tu abbia mai mangiato; senza lambiccarsi alla scrivania o immaginare chissà cosa. Talento puro!
Un’istantanea della sua gavetta?
Sicuramente mi torna in mente uno dei più grandi errori mai commessi, grazie al quale ho sviluppato l’attitudine alla precisione.
Sbagliando si impara, dunque…
Senza dubbio. Soprattutto se sbagli con Bruno Barbieri alla guida del bistellato Arquade: io ero responsabile dei secondi e uno dei ventisette flan, preparati per gli altrettanti ospiti, si rompe. Vi lascio immaginare la reazione dello chef…
Quando se n’è accorto?
No, quando ha scoperto che non ne avevo neppure uno di riserva. Vi basti sapere che quella lezione me la sono portata dietro sempre: quel giorno ho capito cosa non bisogna mai fare in cucina. Il nostro è un mestiere imprevedibile; è sempre necessario giocare d’anticipo.
Dalle retrovie a volto dell’alta cucina. A proposito, è ancora sostenibile il fine dining? Gli echi che arrivano da tutta Europa paiono scandire un triste “de profundis”: penso al Noma che chiude.
Ahimè, credo che la domanda abbia già la risposta. E sarebbe banale ricondurre tutto al covid: da almeno quindici anni l’alta cucina è diventata completamente insostenibile. Fa eccezione solo chi, a parte l’indiscutibile capacità, beneficia di una posizione perfetta. Nessuno, comunque, si salva dalla grande problematica dei costi, sempre più alti e sempre meno facili da sostenere. Guardarsi intorno è obbligatorio…
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La crisi del fine dining, cosa sta succedendo all'alta cucina?
Torniamo a parlare di cibo, prima che lo sconforto ci assalga. Un suo piatto storico ancora oggi attuale.
Devo dirne due. Il primo è senza dubbio il passatello asciutto: un piatto presente fin dalla prima proposta del 2003 che, pur senza particolari slanci innovativi, credo sia diventato iconico proprio perché non perderà mai di interesse a livello di piacevolezza al palato. Poi c’è il tortellino bugiardo, una creazione di otto anni fa che coniuga perfettamente tradizione e innovazione. Tortellino emiliano, cozze campane, bisque con cacao e caffè e panna acida. Elementi che presi singolarmente destabilizzano ma insieme compongono un evergreen.
Dopo un po’ di anni si diventa “maestri” quasi d’ufficio. Lei crede di esserlo?
Non so se posso considerarmi un maestro ma senz’altro sento la responsabilità di chi viene qui ad imparare il mestiere. Chi esce dalla mia cucina non pulisce solo patate: da qui si va via con un bagaglio di conoscenze notevole. Ovviamente, la differenza la fa anche il tempo.
Un ex allievo al quale è legato particolarmente?
Christian Melato [chef di Aroma Restaurant, ndr] è un personaggio per me molto importante e che ha dato tanto a questa cucina, tanto quanto spero di avergli dato io. Un nome tra i tanti, ovviamente.
Un grande chef italiano, senza fare nomi, ha di recente detto che “in cucina serve distanza” e che “tutti devono dargli del lei”…
Forse ha anche detto che è giusto che lo chef mangi da solo e che non abbia grandi contatti con la brigata. Esattamente l’opposto di quello che faccio io. Qui si mangia tutti insieme e sono a capotavola solo per caso: ho bisogno di mangiare con i miei ragazzi. I momenti di confidenza e di distensione sono fondamentali. È chiaro che la cucina funziona se ci sono delle regole e per farle rispettare è necessario tenere conto dell’organigramma.
E sull’uso del “lei”?
Non è una regola assoluta. Diciamo che incomincia ad esserci una differenza di età sempre più marcata e, quindi, capita sempre più spesso.
I vent’anni hanno portato un nuovo brend.
Dopo un logo stupendo che mi ha sostenuto dal 2003 ad oggi, abbiamo voluto innovare, dando un’idea di circolarità che ci fa diventare casa, alcova. Aggiungo…
Dica…
Il logo è stato creato nel 2019. Eravamo certi che avremmo festeggiato i vent’anni.
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Alberto Lupini
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