L'arte del pizzaiuolo napoletano celebra 4 anni di Unesco e si trasforma in doodle

Il 7 dicembre 2017 l'ingresso fra i patrimoni dell'umanità. Una pietra miliare di una professione storica, simbolo del Made in Italy, a cui anche Google dedica il suo logo speciale

06 dicembre 2021 | 15:05
di Vincenzo D’Antonio

Se celebriamo i quattro anni del riconoscimento Unesco all’arte del pizzaiuolo napoletano (avvenuto il 7 dicembre 2017) tra i patrimoni culturali dell’Umanità, vorrà pur dire che questo patrimonio è ben stabile, se non crescente, è ben riconosciuto nel mondo ed eleva ulteriormente la pizza ad uno dei cibi più apprezzati e conosciuti in tutto il mondo.Tanto che pure Google gli dedica il suo famoso "doodle" (i loghi speciali che ogni tanto appaiono sulla sua homepage in occasione di giorni, anniversari o eventi speciali). Essendo ben chiaro che il prestigioso riconoscimento Unesco è rivolto all’abilità manuale del pizzaiuolo napoletano, quel suo gioco di saper “ammaccare” il panetto di pasta lievitata sorto dalla combinazione di acqua, farina e sale fino a farlo diventare un disco sottile e fino a rendere questo disco sottile la base ghiottamente edibile di quell’arcobaleno di colori e sapori che è l’insieme degli ingredienti costituenti il condimento, vogliamo qui porci in condizione defilata, e dolcemente riflettere sull’arte del pizzaiuolo napoletano espletata nel suo ruolo sociale di somministratore di una fantasiosa felicità quotidiana.

 

Il ruolo del pizzaiuolo napoletano nella società

Il passo all’indietro nel tempo ci porta a circa settanta anni fa: gli anni duri del dopoguerra nella città di Napoli. La pizza, ben lungi dall’essere l’occasione per convivialità serale in pizzerie linde e ben arredate, era molto semplicemente la soluzione economica e saporita per sedare la fame del mezzodì. Dove si trascorreva la giornata nella Napoli degli anni ’50 dello scorso secolo? In strada. L’accorto vagabondare alla ricerca del lavoretto dell’istante, se dell’intera giornata andava già bene. Da sentirsi “lavoratore a tempo indeterminato” se quel lavoretto sanciva, sebbene solo sulla parola, un impegno mensile. In tasca poche lire: necessarie per sfamarsi e per poi rientrare a casa con qualche liretta in più per sfamare almeno “per stasera” la famiglia. E domani? Domani è un altro giorno. Qui il ruolo provvidenziale del pizzaiolo: erogatore di microcredito. Qui il fenomeno della pizza "a otto giorni". Cosa significa? Significa che oggi mangio la pizza e tra otto giorni la pago. Sì, ma fra otto giorni è molto probabile che abbia fame e che debba saziare la fame con la pizza. Ma ho in tasca appena i soldi per pagare la pizza pregressa, non quella di oggi! E che problema c’è? Mi saldi la pizza di otto giorni fa e ti faccio credito “a otto giorni” per la pizza odierna.

 

Il fenomeno della "pizza a otto giorni"

Ci siamo mai chiesti perché proprio otto giorni? Perché, molto più semplicemente, non “a una settimana”? Bella curiosità. La pizza a otto giorni, il pizzaiolo, sovente aiutato da moglie e figli in età giusta, la faceva sull’uscio di casa sua, il “basso”, cioè il locale a piano terra fronte strada (vicolo, più che strada), nel giorno in cui era libero dall’impegno di pizzaiolo salariato in una delle tante pizzerie di Napoli. Non che gli passasse per la mente l’idea di dire “ho giorno libero, mi riposo”. No. Ho giorno libero e mi invento “lavoratore autonomo” e faccio la pizza in proprio. La pizza era quella fritta. Fritta all’istante, poggiata sulla carta giusto un attimo per eliminare l’unto in eccesso e poi porta all’avventore ripiegata in quattro (a portafoglio) per il consumo immediato. Ogni quanti giorni il datore di lavoro concedeva il giorno libero al pizzaiuolo napoletano? Ecco svelato l’arcano: ogni otto giorni! Se questo giorno libero è lunedì, il prossimo sarà martedì della prossima settimana e così via: vi era pragmatica saggezza e onesta equità di trattamento. Talvolta, si tratta di far di conto sul calendario, poteva addirittura capitare che il giorno libero cadesse di domenica. Evviva! Ed eccoci dunque al motivo del credito “ad otto giorni”. Se oggi sono qui e mi paghi la pizza pregressa e contrai debito per la pizza odierna, caro mio avventore, il giorno certo che puoi tornare è ... tra otto giorni, quando sarò di nuovo qui. E via così.

 

Uno spicchio di felicità

La prassi dell’oggi ad otto si estese immediatamente a tutte le pizzerie di strada, anche quelle sempre aperte. E sempre avanti così. E quel giorno che il debitore non si presenta e non salda il debito e non ne accende contestualmente uno nuovo? Atteso che di casi rarissimi si trattava, la constatazione era che quella prima pizza in assoluto, quella che consentì lo start-up della fidelizzazione, si era rivelata un omaggio. Fidelizzazione, ma oggi si dice “loyalty”, microcredito, full trust, street food. Esisteva già tutto ciò, settanta anni fa, nella Napoli del dopoguerra. E quindi, anche questi comportamenti del pizzaiuolo di allora contribuiscono silenti, ubicati nelle retrovie dell’umiltà che non si esibisce, a rendere il mestiere del pizzaiuolo napoletano un’arte. L’arte di rendere la pizza donatrice di attimi di felicità.

 

 

Da Napoli al mondo, un 'arte da difendere e diffondere

Felicità espressa anche da Alfonso Pecoraro Scanio che, quattro anni fa, promosse con la Fondazione UniVerde la petizione da record #pizzaUnesco, che ha superato 2 milioni di firme in tutto il mondo: «Il doodle di oggi di Google è un ulteriore omaggio alla pizza, a Napoli e all’Italia ma soprattutto premia generazioni di pizzaiuoli che hanno mantenuto questa tradizione, la grande qualità dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani che consentono di essere la cucina più popolare al mondo». La celebrazione del risultato conseguito all'Unesco, però, è anche un modo per rilanciare questa arte tutta italiana: «Ora occorre davvero diffondere nel mondo la certificazione dei pizzaiuoli di scuola napoletana e la tracciabilità dei prodotti agroalimentari davvero Made in Italy, in Naples e nel Sud. Ecco perché continua la campagna #NoFakeFood a difesa dei prodotti tradizionali e riconosciuti».

 

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Alberto Lupini


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