Intervista a Perbellini: «La qualità e la passione portano le stelle, non il contrario»

Giancarlo Perbellini riflette sul significato delle tre stelle Michelin: un simbolo, certo, ma mai il punto di partenza. «Non abbiamo aperto un ristorante per prendere stelle» racconta lo chef . «Volevo una cucina che parlasse alle persone, che esprimesse chi sono». Qualità e passione, aggiunge, sono il vero motore di ogni riconoscimento

21 novembre 2024 | 05:00
di Gabriele Pasca

Il 5 novembre, a Modena, Giancarlo Perbellini ha ascoltato il verdetto che ogni chef sogna, ma che solo in pochi riescono a sentire nella propria vita: tre stelle. La consacrazione del lavoro di una vita, che Perbellini ha accolto con un lungo abbraccio con sua moglie Silvia, quasi a voler condividere in silenzio la profondità di quel momento, l'essenza di un cammino fatto insieme, giorno dopo giorno, tra sacrifici e sogni coltivati con pazienza. Pochi giorni dopo, mentre l'eco della serata modenese si diffondeva in tutto il mondo, Perbellini era già tornato a Verona, nella sua "Casa", al 12 Apostoli. La scena era quella di sempre: lo chef pronto ad accogliere i suoi ospiti come un padrone di casa che accoglie sempre con naturalezza, quasi senza lasciare trasparire il peso di ciò che ha appena conquistato. Giancarlo Perbellini è così: anche la più grande euforia non riesce a sovrastare la sua innata capacità di rimanere saldo, presente, pronto a mettere ogni energia nel lavoro quotidiano. Tra un sorriso e un convenevole, guida i suoi ospiti attraverso i luoghi che lo rappresentano, quei dettagli che non sono solo decorativi, ma parlano del suo pensiero, della sua storia, della sua idea di ospitalità.

L'alta cucina non sarà mai in crisi finché continuerà ad avere il volto umano e i piedi ben piantati per terra di Giancarlo Perbellini. Un cuoco, prima di tutto. Ma anche un uomo, un osservatore instancabile, un pensatore che unisce tecnica e sentimento, radici e visione; un artista del gesto, capace di trasformare idee complesse in realtà concrete e mai didascaliche. Una cucina, la sua, che sorprende con piatti che sembrano esistere da sempre; eppure, nascono dall'elaborazione continua di un pensiero mai fermo. Da Piazza San Zeno (dov'era Casa Perbellini fino ad un anno e mezzo fa) al 12 Apostoli, il cammino è breve, ma racchiude un'intera vita di significati. Sono venticinque minuti attraverso Verona, una città che Perbellini conosce intimamente e che osserva con gli occhi di chi sa cogliere ogni sfumatura, ogni imperfezione, ogni dettaglio. È in questo rapporto profondo con la città che la sua cucina trova radici; sempre, però, con il coraggio di andare oltre, di interpretare e ridefinire ciò che significa fare alta cucina. Oggi, Casa Perbellini è il risultato di questa sintesi: uno spazio e un tempo che trovano una forma compiuta. Nulla è lasciato al caso, eppure nulla è rigido: tutto scorre, in un equilibrio che è proprio la cifra di Perbellini; un laboratorio di idee, una tavola di intensità e sentimento, dove l'innovazione non è mai rottura, ma evoluzione.

Una terza stella Michelin "romantica" per Perbellini

Tre stelle Michelin sono una responsabilità. Eppure, guardando Giancarlo Perbellini, non c'è traccia di ansia o di tensione. C'è solo la serenità di chi sa che il successo non è un punto di arrivo, ma un nuovo inizio.

“Terza stella romantica.” È così che è stata definita. Tutto inizia con un abbraccio forte con sua moglie. Quanto si ritrova in questa descrizione?
Molto. La definizione di “stella romantica” mi piace, perché racconta esattamente com'è nata. Questo traguardo non è solo mio: è stato un percorso condiviso con mia moglie, che ha avuto un ruolo fondamentale. Lei è fuori dal nostro mondo, e proprio per questo ha una visione diversa, più lucida. Io dico sempre che il 51% di tutto questo è merito suo. È la persona che ascolto di più, quella con cui condivido gioie e difficoltà. Questa stella è anche il compimento di un sogno che coltivavo da giovane, un sogno che rappresentava, per me, il completamento del percorso.

Il suo percorso è iniziato al 12 Apostoli, il ristorante che oggi ospita Casa Perbellini…
Non proprio. Sono arrivato al 12 Apostoli quando avevo 18 anni, ma prima avevo già fatto esperienze importanti. Alla scuola alberghiera ci incoraggiavano a fare stagioni: io ho iniziato al Marconi di Verona, un ristorante che all'epoca aveva una stella Michelin e faceva duecento coperti al giorno. Poi sono passato al Desco, dove ero matricola numero due all'apertura. Lì stavamo cercando di interpretare quella che all'epoca era percepita come “nuova cucina”. Quando sono arrivato al 12 Apostoli, era un locale di grande prestigio con due stelle Michelin, ma già allora sentivo il bisogno di crescere ancora. Dopo sei mesi, sono entrato al San Domenico di Imola, ed è stato lì che ho capito davvero cosa significasse lavorare ad altissimi livelli.

Cosa le ha lasciato l'esperienza al San Domenico?
Mi ha aperto gli occhi. È stato il passaggio che mi ha permesso di andare in Francia e lavorare in un castello, in una brigata senza italiani, un'esperienza formativa straordinaria. Ogni passaggio è stato un mattone fondamentale per costruire ciò che sono oggi: il Marconi, il Desco, il 12 Apostoli e poi il San Domenico. Ognuno mi ha insegnato qualcosa di diverso, ed è grazie a quel percorso che sono arrivato fin qui.

Questa terza stella è anche un riconoscimento per la città di Verona. Cosa significa per il territorio?
Spero che sia un messaggio. Le tre stelle non sono solo un premio, ma un simbolo di qualità. E qualità è una parola che si dice con facilità, ma che richiede enormi sacrifici per essere perseguita. Spero che questa stella possa ispirare le nuove generazioni di cuochi, far vedere loro che lavorare con passione porta risultati. Noi, quando abbiamo aperto il ristorante, non pensavamo alle stelle: volevamo fare una cucina che fosse autentica, che piacesse alla gente. Le stelle sono arrivate come conseguenza. Per Verona, penso che sia un riconoscimento importante, capace di attrarre un pubblico che sappia apprezzare l'eccellenza.

La cucina in continuo cambiamento di Giancarlo Perbellini

Parliamo di cucina. La sua è conosciuta per l'equilibrio e il crescendo di intensità che culmina in un dessert iconico, la millefoglie. Quanto c'è delle sue origini familiari nei suoi dolci?
La millefoglie senza dubbio racchiude una parte importante delle mie origini. La pasticceria è nel dna della mia famiglia, quindi il legame con il mondo dei dolci è naturale. Anche piatti come il caviale con lo zabaione o il wafer richiamano quella memoria del gusto che mi porto dentro. Negli anni, però, ho imparato ad attingere sempre di più dalla tradizione italiana: se penso che trent'anni fa non cucinavo la pasta secca, mentre oggi è un pilastro del mio menu, mi rendo conto di quanto siamo cresciuti e maturati.

Casa Perbellini cambia menu cinque volte all'anno. Come si evolve il racconto attraverso i suoi piatti?
La stagionalità è la mia guida. Ogni anno non riproponiamo mai i piatti dell'anno precedente: ci costringe a pensare in modo nuovo, a metterci in discussione continuamente. Questo ci tiene vivi. Non mi piace l'idea di restare fermo: se avessi continuato a fare ciò che facevo trent'anni fa, oggi non sarei più attuale. Nei miei altri locali, invece, il focus è sulla tradizione italiana, con un'attenzione ai territori. Ogni locanda ha una sua identità.

Giancarlo Perbellini sui giovani di oggi (sia in sala che in cucina)

Ha una squadra giovane, sia in sala che in cucina. Non è vero, allora, che i giovani non hanno voglia di lavorare?
Non è vero, ma i giovani vanno stimolati. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno fatto amare questo lavoro, e cerco di fare lo stesso con loro. Nei miei locali, molti ragazzi che lavoravano con me sono diventati miei soci. La scuola alberghiera è fondamentale per dare una base, ma poi servono figure che trasmettano passione. Io devo molto a maestri come il professor Matteo Lovato, Valentino Mercatilli, Elia Rizzo e Christian Morisset. È grazie a loro che ho imparato a superare le difficoltà: non è un percorso facile, ma serve costanza e spirito di rivincita.

Se dovesse ringraziare qualcuno, oltre alla sua famiglia e ai suoi maestri, chi nominerebbe?
Ringrazierei chi mi ha ispirato dall'esterno. Penso a Jacques Maximin, Marc Veyrat, i fratelli Roca. Sono stati punti di riferimento straordinari. Quando mi innamoro del lavoro di qualcuno, non mi limito a osservarlo: vado a mangiare da lui, cerco di capire e imparare.

Su chi scommetterebbe oggi, tra i giovani chef?
È sempre difficile indicare qualche nome, perché il percorso è pieno di ostacoli. Detto questo, ci sono ragazzi molto interessanti: Davide Caranchini, sul lago di Como (Ristorante Materia, ndr), è un nome che mi viene in mente. Poi c'è Marco Stagi (Ristorante Metodo, ndr), che è stato un mio collaboratore, e Giacomo Sacchetto (chef di Iris Palazzo Soave, ndr), che ha una grande mano e sta crescendo molto. Ci sono tanti giovani talenti, ma servono determinazione e costanza per emergere.

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