Nell’autunno dello scorso anno (2020), e precisamente dal 27 settembre al 19 ottobre, scrivemmo cinque articoli volti a tratteggiare lo stato dell’arte della ristorazione in un periodo in cui sembravano scongiurate nuove restrizioni alle aperture. Individuammo
cinque tendenze che avrebbero connotato la nuova ristorazione, quella ristorazione risorgente dalle ceneri della tragica pandemia. Qui presentiamo una rilettura attualizzata, un “long form” che in quanto tale - ci sia consentito precisarlo - richiede tempi di lettura un po’ più lunghi di quelli ai quali ci stiamo abituando.
I cinque trend della ristorazione
1. Dal fast food al fast gourmet
Il concetto stesso di ristorante, fatta salva la condizione basilare che associa il ristorante al ristoro, va velocemente ed irreversibilmente mutando, perché
è il concetto stesso di ristoro che va mutando. Si pensi alla traccia profonda che ha lasciato il lockdown sulle modalità di lavoro. Il lockdown ha catalizzato un fenomeno già in atto: prevalenza dei “white collar” (ceto impiegatizio e management) sui “blue collar” (ceto operaio) al tramonto della cosiddetta società industriale. Dall’ovvia necessità/obbligatorietà del portare le braccia nel luogo fisico dove esse avrebbero “funzionato”, all’opportunità di poter non portare le menti in luogo fisico predeterminato in quanto esse avrebbero “funzionato” a prescindere dal luogo di lavoro e forse avrebbero addirittura funzionato meglio nell’ambiente domestico posta la connessione in rete.
Dalla manodopera che porta braccia in fabbrica, alla “
mentedopera” che rende disponibili sulle nuvole (cloud computing) competenze, saperi, idee, progetti. Il cloud computing e lo smart working. Come immaginiamo l’approccio mattutino al lavoro? Probabilmente, svincolati dall’azione dell’uscire da casa, si torna all’abitudine della prima colazione indoor. Varie opzioni: è un
breakfast che perviene in delivery dal bar sotto casa? (a proposito, che fine fanno i bar “sotto ufficio”?); è una prima colazione approntata con componenti comprate a scaffale in Gdo oppure nel rinascente negozio specializzato “sotto casa”? oppure gran parte delle componenti, come moltissimo altro, è frutto di acquisto da e-commerce?
Poniamo che questa nostra prima colazione sia frutto di delivery. Bene. E perché delivery da bar e non da ristorante? Risposta facile e semplice:
a) il ristorante non è aperto all’ora considerata canonica per fare colazione;
b) non è detto che il ristorante disponga delle componenti di una prima colazione, intese come ingredienti, know-how, servizio.
E allora, introduciamo trasversalmente un altro concetto. Nei momenti di calo epocale, come è quello attuale determinato dal Covid-19,
ciò che diviene prevalente nel prendere decisioni, è la disamina del possibile piuttosto che la disamina del probabile. Ed il motivo è chiaro: il probabile di “ieri” quasi certamente non è il probabile di “domani”. E ciò che ieri era considerato impossibile, domani diviene possibile. Attenzione: possibile, ma non facile a farsi.
La dotazione di nuovi strumenti è indispensabile come altrettanto indispensabile è acquisire in onestà intellettuale (crederci e non fare finta di crederci!) la consapevolezza dei tempi che mutano.
E la pausa mattutina? Quella che contempla, sebbene la locuzione non sia molto corrente, la “seconda colazione”: al bar oppure al ristorante? Posto che in sana situazione concorrenziale la Gdo non si organizzi con appositi corner a servizio rendendo ancora più attrattiva in quanto variegata l’offerta. Ma questo break di tarda mattinata, non è che somiglia al cosiddetto brunch del passato? E non è che diventa un mix di servizio? Dunque, pausa di tarda mattinata: languorino, voglia/necessità di “spezzare”, ma anche le incombenze del quotidiano food shopping.
Siamo al cosiddetto one-stop shop: il ristoratore, attratto dal “possibile” dell’oggi e non più lusingato dal “probabile” del passato, si adeguerà. Il ristorante che diviene one-stop shop. Ci vado in tarda mattinata e soddisfo il mio bisogno di sgranchirmi le gambe, di smorzare il languorino, di incontrare il collega/amico. Qui trovo il basket già pronto con i prodotti che ho ordinato by app (tramite cellulare o pc) e mi faccio servire in modalità take-away (asporto) il light lunch (pranzo) da portare a casa. Sono in touchpoint (in collegamento internet) e verrò aggiornato sugli eventi che si terranno a breve e per alcuni di essi effettuo prenotazione.
Andando oltre la simulazione di quanto accadrà nei centri urbani, anche piccoli e medi, e non soltanto nelle solite grandi città, a fronte del consolidamento e dello sviluppo ulteriore dello smart working, ci ritroviamo al cospetto dell’
AAO (Almost Always Open) con offerte differenziate a seconda delle fasce orarie. Il decremento dei flussi turistici comporta rinnovata attenzione e coccole al target costituito dalla clientela locale. Una clientela locale che si vedrà attrarre da un nuovo “service provider” che saprà fornire il nuovo servizio di ristoro. Un nuovo servizio di ristoro che include “anche” il pranzo e la cena, laddove pranzo e cena cessano di essere gli unici momenti di erogazione di un eclettico e multiforme servizio di ristoro.
Insomma,
locali pronti a servire i clienti a quasi tutte le ore (come peraltro già succede in alcune grandi città, soprattutto all’estero) e a soddisfare ogni esigenza durante l’intero arco della giornata.
Ma anche locali che sappiano integrare servizi diversi, da bar e ristorante nelle stesse quattro mura, da erogare con il medesimo personale, per evitare l’aumentare dei costi.
Il tramonto della società industriale, l’avvento dello smart working hanno determinato la cessazione di una sorta di mantra laico: orario di lavoro 8-17 dal lunedì al venerdì. Era vero ieri. Oggi non è più vero, immaginiamoci domani! E come si può ignorare che la caduta di un totem di tale portata non comporti stravolgimenti anche nella ristorazione e in tutta l’hospitality? E
con il lavoro da casa che, volenti o nolenti, sta rivoluzionando il modo di lavorare, ecco che una possibilità in più per questi lavoratori potrebbe essere quella di pranzare non più a due passi dall’ufficio, bensì a due passi da casa. Certo non più in centro città, dove tuttavia oggi si concentra la stragrande maggioranza dei bar e dei ristoranti, ma nelle periferie e soprattutto nei paesi di provincia. Un’idea per chi vuole investire, puntando su un mercato nuovo e inevitabilmente in via di espansione. Forse una scommessa azzardata, di questi tempi, ma senz’altro di lunga prospettiva, se è vero, come pare, che il ritorno al lavoro nelle città ci sarà, ma sarà graduale e soprattutto non più così massiccio come in passato.
La pandemia e il conseguente lockdown hanno catalizzato il cambiamento. Gli hanno dato evidenza, lo hanno reso hard e non soft ed hanno perciò contribuito a rendere fortemente difficoltosa la sopravvivenza a chi “non vuole vedere”, a chi ancora dice: “prima o poi torneremo alla normalità”. Costoro, duole dirlo, si stanno ponendo ai negletti margini della community. La grande assunzione di responsabilità del ristoratore nuovo, foriera di tante soddisfazioni tangibili e intangibili, è la formulazione di una nuova ricetta: la ricetta di un buon vivere insieme con buoni cibi, con rispetto dell’ecosostenibilità e in amena convivialità.
2. On the go
“Parva sed apta mihi”, a significare “piccola ma adatta a me”. La casa. La casa-guscio, la casa-nido, la casa con il tranquillizzante effetto “bambagia”. Sarà pure piccola, ma questa sua eventuale “piccolezza” la si supera non concedendo soluzione di continuità alla trasmigrazione dal “dentro casa” al “fuori casa”. Con l’aggiunta di un piccolo paradosso apparente: mi sento fuori casa come a casa quando frequento locali che mi trasmettono immediata situazione di agio e di comfort e questa situazione di agio “fuori casa” mi si palesa ancor più ed ancor meglio quando sono “fuori” dal locale, ovvero nel suo spazio esterno, nel suo dehors. Non è scioglilingua: è la realtà, soprattutto adesso nell’imminenza della stagione estiva. Insomma, essere al “fuori” del “fuori casa” per sentirsi a proprio agio come “dentro” casa!
Nella gestione del dehors si gioca l’abilità del nuovo ristoratore al cospetto della nuova ristorazione. È una questione prospettica. Vedo il dehors come “recipiente” e quindi grazie ad esso, a parità di livello del servizio, amplio gli spazi, oppure individuo nel dehors lo strumento atto a conquistare un differenze posizionamento distintivo ed una correlata visibilità incrementale? Si tifa per la seconda ipotesi, ovviamente!
La maggiore visibilità è da intendersi anche come ulteriore punto di contatto: il dehors da utilizzare come vetrina vivente, spazio interattivo dove il cliente dell’istante è anche testimonial/influencer dell’istante. Non siamo letteralmente alla “casa di vetro”, alla trasparenza eccessiva che tra l’altro violerebbe anche la privacy, ma siamo in una realtà adattiva laddove le scelte di consumo dei prossimi clienti sono anche il portato degli atteggiamenti e dei comportamenti dei clienti attuali. Insomma, si innesca o un volano virtuoso oppure il suo opposto, il volano vizioso:
- Mostro qualità mediocre, attraggo clientela men che mediocre: volano vizioso.
- Mostro buona qualità, attraggo clientela di elevato standing: volano virtuoso.
A questa valenza del dehors vissuto quale spazio di realtà adattiva, si correla il secondo fattore: il
posizionamento distintivo. Ciò comporta ideare e realizzare, ponendo a premessa le capacità del personale, un’offerta specifica del dehors. Pertanto, ragionando secondo gli slot della giornata e dando finalmente per acclarato l’ampliamento degli orari di servizio (AAO), si tratta di pensare ad un modo nuovo di proporre la colazione, e si pensi a come impatta su ciò lo smart working, così come il brunch, il light lunch, l’ora del tè, l’happy hour, il dopocena. Nulla che abbia sentore né di sciatteria di servizio, né di qualità mediocre di cibo e bevande. Il dehors, per la proprietà e per i collaboratori, diviene il punto di riferimento del locale.
Tutto quanto avviene nel dehors deve essere il meglio di quanto sappiamo fare, posta la tensione al miglioramento continuo, altrimenti la pigrizia pervade l’ambiente ed il declino si insinua. Il dehors diviene per la clientela lo spazio ambito dove ricevere il miglior servizio, vedersi proporre le novità e sentirsi coccolati. Il dehors non come ampliamento di “recipiente” ad invarianza di proposte, bensì come la bella vetrina e il funzionale laboratorio che insieme fungono da propellente per dare vita al nuovo ristorante che a sua volta, proprio grazie ad un ben fatto dehors, induce a dare nuova vita, mediante riassetto urbano, al territorio in cui è inserito. Uscire da casa per incontrare gli amici ed incontrarli in quell’appendice di casa propria che è il dehors.
Non un dehors qualsiasi, ovviamente. Bensì il dehors di quel locale il cui patron ha un’idea coerente di come stia rapidamente evolvendo lo scenario della ristorazione. E per una ristorazione che sta mutando,
con i dehors stanno cambiando volto anche i centri storici e persino le periferie delle nostre città: un altro particolare non di poco conto per l’economia (e, in certi casi, la sopravvivenza) di tanti esercizi pubblici. Sostenuti dalle amministrazioni comunali (che hanno concesso gratuitamente il suolo pubblico) per dare la possibilità ai locali di ampliare i loro spazi, rispettando le restrizioni anti-contagio, i dehors si stanno incrementando in questi mesi un po’ ovunque: fermarsi a consumare all’aperto, seduti a un tavolino nel cuore della città, magari in una zona pedonale, o - perché no - anche lontano dal centro e dal caos cittadino, è un piacere che tanti italiani stanno riscoprire con l’avvenuta riapertura dei locali dopo i mesi delle restrizioni. Un altro modo per favorire la socializzazione e i fatturati di bar e ristoranti.
3. Sicurezza trasparente
Se andassimo in emeroteca e rintracciassimo su pagine ingiallite le prime recensioni a ristoranti, scritte da penne autorevoli che poi hanno fatto scuola, ritroveremmo menzioni anche della pulizia dei locali. Faceva notizia, generava discrimine, una pulizia appena sufficiente al confronto con pulizie impeccabili. Queste notazioni non sono neanche più marginali; semplicemente sono scomparse nel tempo, a testimonianza di un’igiene divenuta asset by default, ovvero: c’è, semplicemente ci deve stare, ha poco o nessun senso citarla. Daremmo mai la notizia che in sala ci sono i tavoli e ci sono pure le sedie?!
Oggi c’è una nuova frontiera dell’igiene che vorremo definire “igiene partecipata”. Vari Dpcm, le circolari esplicative, il meritorio lavoro svolto da Fipe (la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi) nella sua funzione tutoriale di indirizzo, hanno posto raccomandazioni e obblighi in merito. Insistiamo sul lavoro assoluto di pulizia e igiene, in cucina come in sala e nei bagni. Questo è un processo però ancora lungo, se è vero che disinvolte sono le interpretazioni e poco comprensibili le disattese sul controllo della temperatura e sulla dichiarazione di anagrafica del cliente, compresi i punti contatto (telefono ed email); la distanza tra i tavoli misurata con metri forse troncati negli ultimi decimetri; menu cartacei che dal monouso invocato sono divenuti pluriuso fino ad usura; i pagamenti cash ancora bene accolti nonostante si dovesse ipotizzare l’andare oltre il Pos e pensare ad un vero touchless (pagamenti by app su smartphone). E ancora: i servizi igienici assolutamente puliti, senza ombra di dubbio, ma con tante ombre e tanti dubbi circa la loro effettiva sanificazione, da effettuare anche più volte al giorno.
È imminente l’arrivo della bella estate. Cominciano le vacanze e la villeggiatura. Andare al ristorante torna ad essere quel “mangiare bene insieme” che non può essere disgiunto dalla componente prioritaria di scelta: l’osservanza della “nuova igiene”. L’abbiamo denominata “igiene partecipata”. Sì, in quanto frutto di una comunione di intenti e di comportamenti tra ristoratore e cliente.
Al dovere del ristoratore di garantire igiene si accompagna il dovere del cliente (e quindi non più solo suo diritto) di contribuire attivamente a mantenere doverosamente e rigorosamente elevato lo standing di igiene, anche con il suo comportamento ed anche, perché no, facendo notare al ristoratore inosservanze e lacune.
Pagamenti: evitiamo i portaconti che ben più che portare i conti, possono portare contagio. Evitiamo, anzi
aboliamo il pagamento cash: quanti i vantaggi, ma proprio tanti tanti (!) non solo in quell’istante del pagamento, ma a beneficio di tutti gli stakeholders del ristorante e di tutta la community! È diritto e dovere dei soggetti in causa, ristoratore e cliente, attuare questo comportamento. Anche questa è igiene partecipata.
Menu: si era detto mai più cartacei e se cartacei hanno da essere, che siano rigorosamente monouso o igienizzabili con certezza ad ogni uso. È forse la prassi più disattesa. Quanti i vantaggi di un menu paperless? Tanti, probabilmente ben più di quanto si possa ipotizzare in prima battuta. Tuttavia, posto che altri vantaggi non ve ne siano (e ribadiamo che invece ce ne sono!), possibile non sia percepito come grande beneficio quello di evitare passaggi e transiti di oggetti tra persone? Alcuni provvedimenti sono proprio brutti a dirsi, a farsi, a vedersi. Uno proprio tremendo: i bicchieri di carta e le posate monouso. Roba da mensa ospedaliera, per carità, non parliamone proprio e che l’ipotesi neanche la si ventili, per carità!
Sarebbe la melanconia assoluta e la volta buona che al ristorante non ci andiamo proprio più. Però, un momento. L’igiene è priorità assoluta. Vero. E come risolviamo? Abbiamo presente il gueridon (il tavolino di servizio)? Oltre ad una nostalgia di un servizio di sala che lo vedeva presente, qui rinverdiamo il gueridon per motivo altro, meno gourmet e molto “igienico”.
Su una sorta di gueridon, insomma su un carrello, protetti da quegli arnesi che troviamo dal dentista, ma anche dal barbiere,
vengono messi i calici e le posate. In ambiente sterile ed asettico fino al momento in cui il cameriere, provvisto di guanti e mascherina, appronta il tavolo, con i commensali già presenti ed anch’essi dotati di mascherina. Sì, un nuovo timing nella mise en place.
E stiamo tacendo di
sanificazione del tavolo dopo ogni “giro”; cucina da rendere a vista il più possibile; certificazione disponibile sui controlli periodici effettuali al personale di sala e di cucina; accorgimenti igienici anche per delivery e take away. Igiene partecipata: step successivi di diritti e doveri sia per il ristoratore, con costui intendendo ovviamente le persone di cucina e di sala, che per il cliente. Sorta di gentlemen agreement tacito, volto ad accelerare l’approdo a quella nuova normalità alla quale tutti noi aneliamo.
4. Touchless experience
Se è vero, com’è vero, che una realtà si comprende bene - senza distorsioni eccessive e minimizzando il rischio di errore di interpretazione - ponendo attenzione ai dettagli, allora cominciamo a valutare la rinnovata cura che il nuovo ristoratore pone nei confronti dei clienti. La soglia d’ingresso: banalmente e letteralmente la porta. È scorrevole o no? Se è scorrevole, così come dovrebbe essere, captiamo il primo segnale positivo circa l’attenzione del ristoratore al touchless. E poi si scopre, dettaglio dopo dettaglio, che quando vi è la
porta scorrevole è probabile che ci sia
controllo della temperatura con il termoscanner, touchless anch’esso, ovviamente.
Ancor prima di sedersi al tavolo ci si reca
in bagno. Touchless la rubinetteria e gli asciugatoi. Siamo a tavola, touchless, da intendere non manipolati da moltitudini, i menu. Sì, ben oltre il menu cartaceo monouso, qui il menù è da intendersi come offering adattivo (in altre parole, un’offerta sempre più personalizzata) che consulto da mio smartphone. Adattivo perché? Cosa significa in questa situazione, “adattivo”? Significato duplice. Adattivo in quanto l’offerta è del momento. È finito il pesce (quel pesce), scompaiono dal menu i piatti di cui era ingrediente; a cena, ultime tre porzioni di tiramisù, prezzo dimezzato, condizione di miglior favore pur di venderlo. Cliente riconosciuto e presente in anagrafe, note le sue allergie, non appaiono a menu le proposte contenenti quegli allergeni. E ben altro ancora si può intendere con menu adattivo.
Carta dei vini adattiva: proposte mirate in funzione dei piatti prescelti e dei gusti memorizzati cliente per cliente. Qui il touchless non è sinonimo di adattivo, ma ne costituisce prerequisito; detta diversamente: con supporto cartaceo sicuramente non potrebbe esserci il menu adattivo.
Altro momento che deve diventare rigorosamente touchless, con uso del proprio smartphone, è quello del
pagamento. Qui al touchless si abbina il cashless, inteso come pagamento senza banconote. La cashless society, alla quale timidamente tendiamo (troppi gli interessi non sempre specchiati che la ostacolano) apre allo scenario della
tracciabilità delle entrate e delle uscite e conduce all’economia pull. L’economia “pull” è l’opposto dell’economia “push” che ha connotato la società industriale. Pull/push (che in inglese vogliono dire tirare e spingere) sono parole che siamo avvezzi a leggere sulle porte (ma non le sliding doors!). L’economia industriale produce beni e spinge affinché il bene sia venduto a compratori. L’economia civile, ovvero lo scenario al quale stiamo tendendo, richiede servizi e beni e tira (pull) affinché vi siano erogatori dei servizi richiesti e desiderati e vi siano produttori dei beni richiesti e desiderati. La differenza tra push (passato/presente) e pull (presente/futuro) è da cogliere. La stagione che stiamo vivendo e di cui il ristorante è attore saliente, è proprio quella in cui si verifica la commutazione da push a pull. Abbiamo pagato, rigorosamente touchless e cashless e ci accingiamo a lasciare il locale, auspicabilmente da sliding door diversa da quella attraverso la quale siamo entrati. Fruiamo ancora una volta dell’erogatore touchless di liquido disinfettante e andiamo via.
Il tempo di tornare a casa e su smartphone e su pc arriva mail del ristoratore: thanks. Ma non solo “thanks”, ringraziamenti, bensì il racconto dell’esperienza vissuta. E adesso tocca a noi, rivivendo le emozioni anche con l’aiuto del racconto, fare “fine tuning”, ovvero predisporci a vivere un’esperienza ancora più deliziosa la volta successiva. L’osservanza dei nuovi canoni dell’igiene partecipata, che il touchless agevola, e la fruizione disinvolta e consapevole della tecnologia amica, concorrono ad una migliore qualità del ristoro, ergo ad una migliore qualità della vita.
5. Il servizio è il re
Posto dinanzi a una domanda duale, che impone una risposta netta, come a dire “non ci sono altre possibilità eccetto queste due”, che risposta darebbe oggi il ristoratore al quesito: “Caro ristoratore, tu sei produttore di pietanze che vendi ai tuoi clienti, oppure sei erogatore di servizi attinenti al ristoro?”. Ci aspettiamo che
una fortissima maggioranza di ristoratori si ritenga un “erogatore di servizi”. I ristoratori, non dimentichiamolo, fanno da mangiare per gente che non ha fame. Avessimo fame, resteremmo a casa e ci diletteremmo a svuotare frigo e dispensa ed a bruciare padelle. Ancora una volta ci tornano in mente le parole del compianto Gualtiero Marchesi: «I clienti vanno al ristorante per vivere una deliziosa esperienza cognitiva ed emozionale». Oggi attualizziamo e ci permettiamo di aggiungere «...in un ambiente dove pulizia ed igiene sono sempre all’apice dell’attenzione».
L’evoluzione della ristorazione da almeno tre decenni a questa parte è stata tale che alcuni fattori da discernimento di “qualità erogata e percepita” sono discesi a “
qualità attesa”. Bagni puliti, e ci mancherebbe altro! Camerieri presentabili e non sciatti, e ci mancherebbe altro! Menu scritto e non declinato a voce con prezzo ignoto, e ci mancherebbe altro! La qualità attesa, ricordiamolo, è quella qualità in presenza della quale non elevo il mio giudizio, ed è quella qualità in assenza della quale (ecco perché è “attesa”) il mio giudizio diviene fortemente negativo.
Catalizzati dalla disastrosa pandemia e resi possibili dalla tecnologia, oggi stanno emergendo nuovi elementi che concorrono ad elevare ed ampliare il servizio. Analizziamo alcuni di questi elementi e notiamo come alla loro base vi sia la costante dell’utilizzo sapiente di dati, informazioni e conoscenza.
- La prenotazione - La prenotazione avviene mediante parte terza oppure con contatto diretto. In entrambi i casi ho evidenza preventiva, prima dell’accoglienza, almeno della persona che ha prenotato. Se il nome non è ancora censito in anagrafica, adotto - di concerto con il personale di sala - un comportamento predefinito e duttilmente adottabile. Se invece è un cliente già censito, conosco alcune sue abitudini, eventuali allergie, piatti preferiti, tipologia di vino preferito, modalità di pagamento, tempo medio di permanenza, valore dello scontrino, ed altro ancora. Ovviamente, tutto ciò mi agevola nella personalizzazione del servizio. Che senso avrebbe detenere questo set informativo e poi agire come se costui mi fosse sconosciuto?
- L’accoglienza - Mai che il cliente che ha prenotato abbia a sentirsi dire “si accomodi dove desidera”. Bensì: “Le abbiamo riservato questo tavolo (nel mentre a “questo” tavolo è stato accompagnato)”. Anche il tavolo preferito, posto che sia elemento censito in anagrafe, concorre all’erogazione del tanto gradito servizio personalizzato.
- Le comande - Partiamo dalla considerazione che quasi certamente i clienti al tavolo hanno già contezza del menu del giorno, avendolo visualizzato su smartphone accedendo al sito web del ristorante, e quindi magari sono anche determinati e celeri nel porgere le comande, ma ricordiamo bene che il nostro menu, coerentemente alla personalizzazione del servizio, è adattivo: cela piatti improponibili, per via di allergie e/o di gusti, ed enfatizza piatti che sappiamo essere spiccatamente graditi dal cliente. Idem dicasi per i vini.
- Il conto - Senza andirivieni di foglietti, il più touchless possibile e anche auspicabilmente cashless, il momento della transazione di denaro è più soft. Con il conto non si esaurisce l’esperienza. Si chiude una fase dell’esperienza, certamente quella preponderante e la più importante, e se ne apre un’altra, intangibile (non c’è cibo!) quanto delicata. Fu definita “dal conto al racconto”. Dopo qualche ora, giusto per non apparire come un’allerta, bensì come un racconto (e tale vuole e deve essere), sulla mail dei clienti, i momenti salienti dell’esperienza a tavola: i piatti degustati, i loro ingredienti principali, i vini abbinati, i suggerimenti per un kit che consenta la riproposizione domestica di un piatto, la proposta di acquisto di un vino. Insomma, un “cross selling” di cui il cliente volentieri si gioverebbe.
Ma sin qui abbiamo parlato del servizio in sala, con il cliente che “va al ristorante”.
E quando invece è “il ristorante che va dal cliente”? Sì, l’emergente fenomeno della delivery. Un’offerta assolutamente non identica a quella del servizio in sala, bensì concentrata su alcune proposte che quasi non risentono dello stress da delivery: package atto a preservare il più possibile la pregevolezza del piatto e l’assoluta certezza dell’igiene, accorgimenti di cortesia che costituiscono il tocco in più al servizio; puntualità di consegna; facilità di pagamento.
Sottovalutare la delivery e ritenerla fenomeno effimero figlio della pandemia, è errore grave. Anche nel caso della delivery, mail di ringraziamento che racconta l’esperienza. Anche in questo caso torna utile il concetto di economia pull contrapposta all’economia push. È la domanda che conforma e plasma l’offerta, non più viceversa. Sempre più arduo, sempre più problematico rendere profittevole l’attività di ristorazione facendo push di menu (quei bei libri stampati su carta di pregio come se dovessero durare in eterno).
Saranno vincenti (ed anche contenti, cosa che proprio non guasta!), quei ristoratori lesti a comprendere le grandi opportunità dell’economia pull. Tirare, nel senso di aspirare, dal cliente i suoi gradimenti, i suoi desideri e su di essi, lavoro assolutamente non facile, costruire proposte. Proposte che includono “anche” pietanze da servire a pranzo e a cena. Magari questo elemento permarrà ancora la componente prevalente del servizio. E sta bene. Ma di certo non potrà essere l’unica componente, pensando a cosa è il ristorante AAO (quasi sempre aperto), pensando a quanti mutamenti saranno provocati dallo smart working. Qui il limite, posta la competenza da rendere sempre crescente, e posta la passione che non dovrà inaridirsi, è la creatività a cui associare il concetto di “ciambella rovesciata”.
Abbiamo la stagione estiva davanti a noi: la si sappia vivere avendo a mente, e nel cuore, queste milestones della nuova ristorazione.