Che il tema degli home restaurant sia "sensibile" è noto da tempo. E ugualmente si sa che
serve con urgenza una normativa chiara e definitiva per evitare accuse di concorrenza sleale o evasione fiscale. Saltando a piè pari temi come
la sicurezza igienico-sanitaria o le norme sugli accessi ai luoghi pubblici, una cosa comunque è certa: non è con l’arroganza o la pretesa di rivendicare chissà quale libertà, che si può pensare di ospitare in case private "estranei" per cene a pagamento… in assenza di norme chiare. Lo abbiamo sostenuto dal primo giorno e continuiamo a ribadirlo. Se questo non piace a chi pretende di "rappresentare" gli home restaurant non possiamo che prenderne atto. Come abbiamo sempre fatto, diamo spazio alle loro posizioni ma non possiamo certo farci imporre di pubblicare testi che piacciano a loro invocando, pretestuosamente, un Diritto di Replica come previsto dall’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948.
Serve una normativa chiara per regolamentare gli Home Restaurant
La questione nasce dalle
dichiarazioni rilasciateci ieri dal direttore della Fipe,
Roberto Calugi, che di fatto "smontava" un’ardita tesi secondi cui una sentenza di un giudice di pace potesse fare giurisprudenza, o cambiare la legge in vigore. Con un comunicato senza alcuna firma inviatoci da info@homerestauranthotel.it ci si ingiungerebbe di pubblicare un lungo testo elogiativo di questa "sentenza".
Roberto Calugi
Per dovere di cronaca riportiamo ovviamente per correttezza la dichiarazione di
Gaetano Campolo, Ceo di Home Restaurant Hotel, che sostiene che «questa sentenza rappresenta un importantissimo precedente ed è l’ennesima conferma per lo sviluppo del fenomeno del Social Eating sul territorio italiano. Grazie a Home Restaurant Hotel chiunque ha la possibilità di poter avviare un Home Restaurant, un’iniziativa privata che permette la condivisione della passione per la cucina, il territorio e le tradizioni».
Gaetano Campolo
Affermazioni francamente forse un po’ azzardate, per sostenere le quali nella nota "anonima" si afferma poi che "Quanto affermato da Roberto Calugi non ha fondamento alcuno nel nostro ordinamento giuridico allo stato attuale, i riferimenti (Risoluzioni del Mise n. 50481/2015, n. 332573/2016 e n. 493338/2017) contengono misure bocciate con bollettino postumo agli stessi della Autorità Garante della Concorrenza e dei Mercati (
https://www.agcm.it/dotcmsDOC/bollettini/13-17.pdf), stessa cosa per l'ulteriore riferimento alla nota del ministero dell’Interno del 14 ottobre 2016, superata dal parere del 1° Febbraio 2019 a cui fa espresso riferimento proprio l'atto N.28/CU del 17 Aprile 2019, che riconosce la validità del permesso di visibilità per l'avvio di una attività di Home Restaurant. La sentenza oggetto di dichiarazioni è del 23/05/2019, pubblicata il 31/07/19, difatti recepisce perfettamente il quadro anzi ricostruito negando allo stato attuale del nostro ordinamento giuridico la necessità di presentare SCIA per l'avvio dell’attività di Home Restaurant”.
Riportate le posizioni degli home restaurant solo per dovere di cronaca, perché le loro argomentazioni sono solo un parere di parte e non rientravano nella sfera delle rettifiche obbligatorie - in quanto non abbiamo mai modificato loro dichiarazioni, ma abbiamo riportato quelle di altri soggetti - ci permettiamo di prendere posizione una volta per tutte.
Il punto di partenza è che, allo stato, non vi è alcuna possibilità di negare il dato giuridico secondo cui per l’avvio di un’attività di home restaurant sia necessario presentare apposita SCIA, qualora l’attività debba svolgersi in zone non tutelate, o domanda di autorizzazione, laddove invece si parli di zone sottoposte a tutela.
Le risoluzioni ministeriali citate dalla Fipe, in assenza di una disciplina normativa specifica, ci sembra costituiscano un riferimento, oltreché autorevole, ancora del tutto attuale e mai sconfessato, né dagli stessi dicasteri, né tantomeno dall’Autorità Garante della Concorrenza e dei Mercati, come invece si lascia intendere nella replica del rappresentante degli Home Restaurant. L’antitrust, invero, nel parere del 2017, si è limitata a esprimere alcune considerazioni in ordine al disegno di legge n. AS2647 esclusivamente sotto il profilo concorrenziale, mai arrivando a negare la necessità per gli home restaurant di dotarsi di un valido titolo autorizzatorio. Per altro, il disegno di legge non ha mai completato l’iter parlamentare e, quindi, non è mai diventato legge. E questo fa cadere ogni altra considerazione.
Quanto poi alla nota del Ministero dell’Interno del 14 ottobre 2016, non ci sembra corretto quanto affermato dal rappresentante degli Home Restaurant, secondo cui la stessa sarebbe stata superata con successivo parere dello stesso Ministero; detta nota è stata, invece, espressamente richiamata e confermata con parere del 30 gennaio 2019 prot. n. 557/PAS/U/001505/12000.A(4)2(2) e, più specificamente, nel senso che in quanto “attività rivolta a un pubblico indistinto, non può che essere classificata - allo stato attuale e in mancanza di una disciplina specifica - quale esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande”. Una realtà che da sempre abbiamo sottolineato.
Ma non è tutto. Secondo Roberto Calugi, che abbiamo interpellato, la bontà delle sue affermazioni è confermata “dall’atto n. 28/CU adottato in sede di conferenza unificata del 17 aprile 2019, che va nella direzione di avallare quanto sostenuto dai Ministeri citati: invero, sono state apportate alcune modifiche alla modulistica standardizzata relativa alla SCIA e all’Autorizzazione per le attività di “bar, ristoranti e altri esercizi di somministrazione di alimenti e bevande” proprio allo scopo di “consentirne una più estesa e generalizzata applicazione”.
Per semplicità Calugi ci ha inviato un modulo, che alleghiamo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. In particolare, nel riquadro “Altre dichiarazioni” è stato inserito un espresso riferimento all’attività di home restaurant, imponendo al dichiarante di autocertificare il possesso dei requisiti di sorvegliabilità o – nel solo caso di home restaurant – marcare una voce alternativa con la quale si afferma “di consentire i controlli nei locali da parte delle autorità competenti nel caso in cui l’esercizio dell’attività venga svolto presso la propria abitazione”.
D’altro canto, svolgendo un’attività economica in una dimora privata, l’assenza di questa autorizzazione renderebbe difficile consentire i controlli per verificare lo stato dei locali, il corretto adempimento delle norme in tema di sicurezza del consumatore e della sua salute (come esempio la corretta indicazione degli allergeni) - recependo pienamente quanto indicato dal Ministero dell’Interno nei pareri sopra citati.
Per concludere, vogliamo ricordare che non possiamo non concordare con Roberto Calugi quando afferma di non avere “nulla in contrario agli home restaurant o a quanto possa essere fatto per favorire la condivisione di quello straordinario patrimonio che è la cucina italiana. I ristoratori fanno dell’innovazione il loro pane quotidiano, ma è del tutto evidente che chi fa da mangiare per il pubblico deve rispettare una serie di regole a tutela dei consumatori e del mercato in generale, che non possono essere bypassate in nome di una supposta condivisione digitale. Come più volte sollecitato dalla Fipe-Confcommercio, è quanto mai necessario che la politica avvii un serio ed approfondito adeguamento della legislazione del settore, per garantire a tutti coloro che vogliono intraprendere un’attività economica nell’ambito della ristorazione di avere regole certe ed uguali per tutti”. E la parola ora non può che passare, con urgenza, ai politici.