Green pass nelle mense? Ristorazione collettiva in rivolta: «Non siamo bar o ristoranti»

Per le aziende e le associazioni di categoria, la norma che vale per i pubblici esercizi non può valere per le mense. In gioco ci sono i livelli di welfare aziendali e la questione della privacy . Per risolvere il problema, si potrebbe utilizzare lo schema della ristorazione alberghiera. Ma il dubbio è che si utilizzi questo servizio per forzare la vaccinazione dei dipendenti

10 agosto 2021 | 12:24
di Nicola Grolla

Niente green pass per andare al lavoro. Ma se la pausa pranzo si fa in mensa allora le cose si complicano. Sì, perché, per come è scritto l’ultimo decreto che fissa le regole di ingaggio per l’accesso ad alcuni servizi e attività previa esibizione della certificazione verde, sembrerebbe che anche la ristorazione collettiva sia chiamata a introdurre gli stessi controlli della ristorazione commerciale per far accomodare i commensali all’interno del locale. Una contraddizione che rischia di mettere ancor più in difficoltà un settore già provato dal lockdown, dal massiccio ricorso allo smart working, alla cassa integrazione e alle difficoltà di scuole e ospedali.

 

Ladisa Ristorazione: «Attendiamo chiarimenti»

«Attendiamo la decisione normativa relativa all’equiparazione o meno delle mense ai pubblici esercizi», risponde quasi rassegnato Vito Ladisa, amministratore delegato dell’omonimo Gruppo che, in tempi normali, sfornava 35 milioni di pasti al giorno per 700 strutture sparse in 17 Regioni. Eppure, la rassegnazione non si traduce, obbligatoriamente, in passività: «Abbiamo già realizzato un piano d’azione nel caso dal ministero della Salute arrivassero indicazioni per la richiesta del green pass anche ai dipendenti delle aziende a cui forniamo il pasto. Ora attendiamo le linee guida per capire meglio quali saranno i parametri da tenere in considerazione per gestire al meglio il servizio», continua Ladisa. L’idea è quella di trovare un accordo fra committente (proprietario della struttura in cui vengono distribuiti i pasti) e azienda della collettiva. Fermo restando che «farebbe sorridere il fatto che un operatore della collettiva possa chiedere di esibire il green pass e magari il documento di identità all’interno di una delle strutture militari nelle quali operiamo», risponde Ladisa.

 

Sodexo: «Se questo è un mezzo per convincere i lavoratori a vaccinarsi non ci stiamo»

A inquadrare ancor meglio la situazione è Stefano Biaggi, amministratore delegato di Sodexo: «Si tratta di una situazione alquanto strana a mio avviso. Discutibile il fatto che un lavoratore possa accedere al posto di lavoro senza green pass ma per usufruire del pasto durante il proprio turno di lavoro debba esibirlo altrimenti non mangia. Se sono questi i mezzi per convincere i lavoratori a vaccinarsi, beh, sono alquanto discutibili». Anche in questo caso, comunque, Sodexo si è mossa in anticipo e ha già preallertato tutti i propri operatori e messo al servizio delle varie mense aziendali degli scanner appositi per utilizzare l’app di verifica del green pass. Anche se va ricordato che l’attività di svolge sempre in regime di appalto e quindi in collaborazione con il committente.

Ma dove sta l’inghippo? «In assenza di una chiarificazione da parte delle autorità, il decreto dispone che il green pass sia richiesto a tutti i clienti di quei locali in cui è previsto il consumo di un pasto in ambienti al chiuso», spiega Biaggi. A rendere ancor più complicata la cosa, però, è che la norma «sembra stata scritta da qualcuno che in una mensa aziendale non c’è mai entrato», sentenzia Biaggi. I motivi? «Essenzialmente uno: noi non siamo come la ristorazione commerciale o tradizionale. Per non parlare del fatto che i locali e le postazioni in cui viene servito e consumato il pasto sono comunemente molto ampie e vengono sanificate dopo ogni servizio. Attenzioni che ci hanno permesso di rimanere aperti anche nei momenti più duri della pandemia», puntualizza Biaggi. All’orizzonte c’è anche la ripresa post-vacanze da agganciare a tutti i costi per rilanciare un settore in difficoltà. Obiettivo raggiungibile? «Stando così le cose la vedo dura. Diversi clienti hanno già deciso di non riaprire le mense per evitare problemi. Ma se il numero di pasti continua a diminuire, il business non è più sostenibile. Ricordiamo che non solo abbiamo dovuto subire gli effetti del ricorso allo smart working ma anche che molti lavoratori sono ancora in cassa integrazione. E questo, per noi, significa meno pasti serviti», conclude Biaggi.

 

 

Anir traccia la via: le mense non sono ristoranti, piuttosto si utilizzi lo schema degli hotel

Che in questo passaggio sia mancata una chiara conoscenza del settore, lo sottolinea anche Massimiliano Fabbro, presidente di Anir-Confindustria che nei giorni scorsi aveva già tracciato la linea su questo tema: «La ristorazione collettiva non può essere normata con le stesse regole di quella commerciale. Innanzitutto perché i locali non sono in possesso del gestore della mensa né dati in locazione. Stessa cosa per quanto riguarda i mezzi di produzione in loco. La responsabilità delle aziende della collettiva riguardano solo l’approvvigionamento della materia prima e l’utilizzo dei propri dipendenti per la somministrazione». Insomma, chiedere al gestore la conformità di un documento come il green pass e magari anche il doppio controllo con il documento di identità va oltre il perimetro d’azione delle mense.

Fabbro poi sottolinea un altro punto: «Rispetto alla ristorazione commerciale, in quella aziendale ma anche ospedaliera e scolastica, i dipendenti sono già soggetti a un controllo preliminare prima di accedere ai locali della mensa. Perché dovremmo ricontrollare anche noi?». Come uscirne, dunque? «Un’idea sarebbe quella di adottare la soluzione pensata per la ristorazione negli hotel. D’altronde anche noi, come le strutture ricettive, non abbiamo mai chiuso durante il lockdown. Anzi, abbiamo implementato protocolli talmente rigidi che superano anche il green pass», conclude Fabbro.

 

Carlo Scarsciotti: «La ristorazione collettiva non può essere il cavallo di Troia per l'obbligo del green pass sul lavoro»

A ribadire il concetto è anche Carlo Scarciotti, presidente di Oricon: «A parte 15 giorni tra febbraio e marzo 2020, abbiamo sempre tenuto aperto grazie a protocolli ben oliati che hanno dimostrato di funzionare fin dall’inizio: plexiglass, distanziamenti, distribuzione del cibo da parte degli addetti, no self service o buffet, ecc. Quindi, caro Governo, vai a vedere come funzionano le mense aziendali. Questa iniziativa rischia di creare danni a un settore già massacrato».

Per non parlare dei rischi correlati all'introduzione del green pass nelle mense. Il primo ha a che fare con il welfare: «La pausa pranzo in mensa fa parte dell'attività lavorativa del dipendente. È un diritto acquisito. Se non ha il green pass che succede al dipendente? Non mangia?», chiede provocatoriamente Scarsciotti. In secondo luogo c'è il tema della privacy: «Se un collega con cui poco prima sono stato a prendere il caffè alla macchinetta poi non può accedere alla mensa perché sprovvisto di green pass rischia di affermare senza volerlo il suo stato vaccinale», puntualizza Scarsciotti.

Ma su questo la ristorazione collettiva proprio non ci sta: «Non saremo il cavallo di Troia per introdurre l'obbligo del green pass sul posto di lavoro. Ci batteremo fino in fondo perché in fase di conversione del decreto le cose cambino. Ad oggi, però, è puro caos», conclude Scarciotti.


 

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