Crisi del fine dining: anche i piatti vanno ripensati?

In un mercato che sembra voler tornare sempre di più verso i sapori tradizionali, il fine dining rischia di non riuscire a fornire le risposte adeguate, specialmente quando si spinge molto in là con le sperimentazioni , che pure rimangono fondamentali per lo sviluppo della cucina. Sempre meno clienti sono però disposti a sedersi al tavolo solo per provare interpretare i piatti proposti dallo chef

18 luglio 2024 | 05:00
di Mauro Taino

Nel momento di riflessione che vive il fine dining, dopo aver analizzato la componente del prezzo e quella dei menu degustazione, emerge una tematica che sta a cavallo tra quella che è la proposta economica e quella del menu vero e proprio: le scelte di piatti e ingredienti, il cuore di ogni proposta culinaria e che rappresentano una delle sfide imprescindibili per poter attrarre i clienti.

Fine dining, troppe incomprensioni

Se da un lato lo studio e la ricerca in cucina testimoniano non solo l'abilità dello chef, ma anche una spinta necessaria per tutto il movimento per trovare soluzioni nuove, magari anche in un'ottica anti-spreco e, più in generale, di sostenibilità e circolarità. «Le proposte - sottolinea Giancarlo Morelli - sono triplicate: se guardiamo il numero di aperture dei ristoranti, mentre prima c'era un monopolio di pochi, e c'è una diversificazione altissima. Ma se la proposta è raddoppiata, l'utenza è rimasta la stessa. Il tema della proposta, insomma, non sussiste: ce n'è per tutti i gusti e tutti i portafogli, e questo è importante. Ognuno pensa di aver fatto qualcosa di unico: io, per quel che mi riguarda, ritengo di non aver tradito quella che è la mia filosofia».

Questa ricerca dell'ultima frontiera, però, ha generato in una fetta di mercato una certa diffidenza. Il problema è che in questa corsa si rischia di lasciare indietro alcuni elementi che invece generano fiducia, quando non fedeltà, nel consumatore: la riconoscibilità di ingredienti e sapori. «Sembra - dice Tommaso Arrigoni di Innocenti Evasioni a Milano -, ma è una mia sensazione, che l'utente finale si sia un po' stancato del fine dining inteso come una proposta troppo ricercata».

Fine dining, cosa c'è nel piatto?

Insomma, per dirla come Lucio Pompili, spesso, «non si riconosce più cosa c'è nel piatto». Secondo Pompili bisogna «tornare a puntare sulla qualità della materia prima», coltivando il rapporto con i contadini di cui «il cuoco ha bisogno tutti i giorni» affinché si torni ad una cucina «più concreta, reale e riconoscibile».

La proposta culinaria deve, secondo lo chef di foraging, il nuovo progetto post Symposium, «tornare al territorio: in questo modo non c'è omogenizzazione». Inoltre, le materie prime, dovrebbero passare «dall'orto alla padella, ovviamente dopo essere state pulite», senza troppi procedimenti che finiscono per alterare la percezione - e talvolta i sapori specifici - del cibo.

Fine dining, riscoperta dei sapori tradizionali

Secondo Morelli bisogna perciò tornare ad una proposta di cucina «concreta», «concentrata sul territorio e che abbia il gusto e ciò che vuole l'ospite al centro». Anche perché, per Pompili, ormai è difficile accorgersi del territorio in cui ci si trova: «Come mi accorgo di aver cambiato regione? Bisogna che trovi dei prodotti che siano geolocalizzati».

Un tema, quello della geolocalizzazione, che sta a cuore anche a Daniele Zennaro (Algiubagiò): «Io sono comunque molto radicato sul territorio e cerco di presentare a chi si siede a tavola una cucina che in cui si possa percepire Venezia, la Laguna, ma anche la ricerca del prodotto».

Fine dining, un equilibrio difficile

Zennaro, poi, introduce anche un'ulteriore tema: «Il primo obiettivo, mettendo davanti il fattore azienda, è quello di far quadrare i conti e rendere soddisfatto il cliente. Una cucina più personale in certi casi non sarebbe produttiva per l'azienda, per cui va anche valutata quella che è la politica aziendale. Certamente si tratta di temi che sono motivo di confronto con la proprietà quelli di trovare il giusto equilibrio tra il fatto di proporre una cucina di alta ristorazione, di fine dining, con tutti gli aspetti di ricerca e studio che comporta e il fatto di servire una media di cento coperti al giorno».

«Ci siamo dimenticati - prosegue Pompili - che bisogna cucinare il prodotto, toccandolo il meno possibile, e non elaborarlo. Si riparta dalla normalità: i vecchi cuochi venivano dalle scuole alberghiere dove si faceva pratica e si andava a lavorare, mentre oggi i giovani spesso cercano di introdursi nel mondo del lavoro attraverso gli appuntamenti scolastici». Senza dimenticare che occorre tenere conto anche del consumo energetico, degli scarti e dello spreco alimentare: «Dobbiamo superarlo, dobbiamo essere convenienti».

La chiave potrebbe essere quella suggerita da Luigi Pomata, dell'omonimo ristorante a Cagliari: «Io ho sempre portato avanti la mia filosofia, ma qui in Sardegna viviamo una condizione particolare. Il fine dining si sta un po' ridimensionando, oggi vediamo un più una tendenza che va verso una reinterpretazione delle tradizioni». E Pompili aggiunge: «Il mio motto è: il futuro è fare un passo indietro». Il futuro, anche del fine dining, potrebbe dunque essere quello di recuperare ricette e sapori di una tradizione gastronomica molto ben radicata nella memoria collettiva ed individuale dei consumatori, ma che non abbandoni la sperimentazione e lo studio, una sorta di avanguardia della tradizione.

Fine dining, alla ricerca dell'esperienza perduta

Bisogna perciò porsi il problema di cosa viene proposto. Se cioè i piatti vadano ripensati in virtù di un cliente sempre meno propenso ad inseguire le sperimentazioni degli chef. «Penso che non sia più di appeal questo tipo di proposta: il consumatore non ha così tanta voglia di venire nei nostri ristoranti solo ed esclusivamente per cercare di capire cosa vuole trasmettere lo chef, ma vuole passare una piacevole serata. Per questo non bisogna fare cose troppo difficili». È questa la posizione di Arrigoni che, ad Innocenti Evasioni, sta provando a sperimentare anche formule diverse, come mettendo come quella dell'aperitivo con dj set. Sulla stessa lunghezza d'onda anche Pompili: «Oggi la gente non si diverte più, forse si è scordata come si fa durante il Covid. Non si diverte e quindi non esce. Bisogna invece tornare a far divertire la gente: i locali pieni sono quelli dove ci si diverte, quelli attrattivi e con cibo di qualità. La crisi è nelle persone e in quei posti dove non ci sono idee. Ce ne sono però anche altri, di locale, dove la gente si emoziona e bisogna che ci si esprima sempre di più: offrire il lusso e di conseguenza attrarre ospiti e turismo d'alta classe. Bisogna che lo show vada in onda quando è ora, col sorriso: questo è questo mestiere».

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Alberto Lupini


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