Non pensavo, onestamente, che ci sarebbe stato ancora bisogno di specificarlo. Non credevo che, nonostante tutto, ci sarebbe stata la necessità di fare un articolo del genere. A ben vedere, però, bisogno c'è eccome. Il bisogno di smentire quella fastidiosa opinione popolare secondo la quale nei ristoranti di fine dining, e nei ristoranti stellati in particolare, si esca con la fame.
È un leit motiv con il quale mi sono imbattuto più e più volte, personalmente, negli anni di carriera nel settore della comunicazione e giornalismo enogastronomico. Non pochi ho sentito dire, direttamente, come fossero restii a recarsi in un locale del genere col timore di spendere una fortuna ed esser costretti, a fine cena, ad andare a farsi una pizza o un kebab in piena notte per saziarsi. L'opinione comune, soprattutto (anzi potrei dire anche limitatamente) ai non addetti al settore o semplicemente a chi non è mai stato cliente di locali del genere è ancora questa: «Allo stellato non ci vado perché spendo tanto e non mangio nulla». E come poter stradicare un'opinione comune che così profondamente scava nella credenza popolare? Come poter scalfire una fake news, perché di questo si tratta, semplicemente a parole? Come fare a persuadere del contrario, convincendo chi sostiene ciò a recarsi una volta sola (quanto basta) in un ristorante di questo tipo per cambiare completamente idea?
Al ristorante stellato si mangia poco. Come si crea il preconcetto?
Tralasciando il discorso prettamente economico e ammesso come in effetti poco non si spenda (anche se qui si potrebbe aprire un capitolo a parte), la convinzione di come allo stellato si mangi poco è una, prendiamo in prestito la celebre citazione del ragioner Fantozzi, "ca**ta pazzesca". Ultimamente, a margine della pubblicazione di un articolo riferito alla considerazione della scarpetta nell'alta ristorazione (non "da poter fare", bensì "da dover fare" a detta degli stessi chef) le antenne me le ha fatte rizzare un commento di quelli fatti solo in virtù del sentito dire. «Per forza devi fare la scarpetta negli stellati, con quelle porzioni così piccole se no non ti sfami!». Con una calma non tipica di me, lo ammetto, ho risposto in modo tranquillo e razionale: «Saranno pure piccole le porzioni, ma i piatti sono molti e stai sicuro che ti sfami». Ma onestamente non credo che il mio interlocutore sia stato troppo convito. Peggio per lui.
Personalmente io non sono mai uscito affamato da uno stellato, e non conosco nemmeno nessuno che a termine di un menu degustazione o di una cena alla carta sia dovuto andare in pizzeria per mangiarsi qualcosa e tornare a casa sazio. Nonostante ciò, numeri alla mano, per vari motivi (che va dal legittimo scarso interesse verso il settore a un meno comprensibile timore verso la 'sacralità' del luogo) sono certamente di più coloro che non hanno mai frequentato locali del genere rispetto a quelli che invece ci sono stati. E anche se complicato la speranza di poter cambiare la considerazione comune rimane e permane. Tanto in noi giornalisti quanto in chef di ristoranti stellati che quotidianamente cercano di combattere, con le loro armi, questo pregiudizio.
Chi lo combatte con l'ironia tipica napoletana è uno chef campano, Domenico Iavarone, che nel suo Josè Restaurant di Torre del Greco scherza sulla diceria in questione. Presentando ormai da qualche tempo ai suoi clienti, a fine pasto, una pizza dolce direttamente nel tipico cartone delle pizze. «Così evito loro di passare a comprarla di ritorno a casa», ci dice con una risata. Sembra banale, ma non lo è. Capiamo perché.
Allo stellato si mangia poco? Chef Domenico Iavarone: «La mia pizza dolce che combatte il pregiudizio»
«Del ristorante stellato che si mangia poco e si spende tanto ne ho fatto un concetto di vita, ma fa tutto parte del gioco. Poi per fortuna la maggior parte della gente si rende conto che effettivamente non è così quando viene a mangiare». Da Domenico quindi ci siamo fatti raccontare qualcosa in più su questo dolce ludico e serio allo stesso tempo, che vuol far sorridere ma anche far pensare i clienti. Con l'obiettivo di poter quantomeno scalfire il pregiudizio per il quale, dopo una cena dallo stellato, sia necessario mangiarsi una bella pizza per sentirsi finalmente sazi.
«Il dessert di fatto per forma è una pizza vera e propria, e lo servo proprio nel cartone della pizza. Gioco sull’opinione comune per la quale, dopo aver mangiato dallo stellato, esci con la fame e devi andare a cercare qualcos’altro da mettere sotto ai denti, magari proprio la pizza. E allora la pizza l’ho ricreata io a fine menu, portando un po’ di ironia a tavolo, ma in realtà cercando di combattere le dicerie comuni sull’alta ristorazione. In primis quella che ti vuole affamato a fine cena. Io parto proprio da questa battuta: visto che siamo etichettati come quelli che fanno spendere tanto e danno poco da mangiare, allora la pizza te la porto direttamente io, così ti eviti di passare in pizzeria uscendo da qui».
«Ho pensato quindi di fare questo gioco, creare la pizza dolce servita in un cartone. Inizialmente fu una scommessa, ero curioso di vedere se avrebbe funzionato e mi accorsi che comunque come soluzione creava sorpresa tra la gente. La pizza dessert la metto nel cartone, la porziono con le forbici e dico ai clienti che va tutto rigorosamente mangiato con le mani. E visto che è abbastanza grande per due persone, essendo di 32 cm di diametro e per di più alla fine di un percorso degustazione, automaticamente ci sono tanti che chiudono il cartone e si portano via ciò che rimane». Il colmo dei colmi: cenare allo stellato e portarsi a casa gli avanzi.
Ma come viene realizzata questo dessert al gusto di provocazione? «La pizza dolce non è altro che una brioche al cacao, stesa, cotta al forno elettrico inizialmente per 12-14 minuti. Nel periodo di bella stagione metto le fragole, oppure faccio una base di tre cioccolati, bianco, al latte e fondente, ganache al cioccolato bianco acido a ricordare un po’ la mozzarella, poi di nuovo in forno per fondere i cioccolati. In uscita la termino con frutti di bosco marinati in un gin campano. Aggiungo menta, basilico, una grattugiata di limone, metto nel nostro cartone personalizzato e poi la porto direttamente a tavola». E il gioco è fatto. Ma il messaggio arriva? A questo punto la palla passa al cliente...
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Alberto Lupini
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