I pani pompeiani in tavola al President di Gramaglia

L’antica tradizione rivive grazie allo chef napoletano nel suo ristorante di Pompei. La moglie Laila ripercorre la storia millenaria del pane nella storica località campana

30 dicembre 2019 | 11:40
di Vincenzo D’Antonio
Sessant'anni a 2mila. Insomma, tra 60 anni saranno 2mila gli anni trascorsi dalla catastrofica eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei. Pompei distrutta, sì è vero, in un giorno di ottobre (e non più agosto, come si riteneva fino a pochi anni fa) del 79 d.C.

Il pane di Pompei

Ciò significa che Pompei è una città morta? Andremmo cauti nell’avallare tale affermazione. La zona archeologica di Pompei è viva per quanto ancora sa trasmettere emozioni ed irrorare pensieri e dare stimoli di saggezza ai milioni di visitatori che la visitano tutti gli anni. Pompei è viva per quanto ancora sono in corso ritrovamenti ed è un po’ come se fosse un cantiere. Pompei è viva perché ancora da essa si trae spunto, chi sa farlo e chi vuole farlo, per proseguire il viaggio senza fine dell’uomo mediterraneo. E della sacra triade del Mediterraneo, vite, ulivo e grano, è proprio quest’ultimo, nella sua trasformazione in farina e nella successiva lavorazione, a donarci ancora oggi il pane: il pane quotidiano.

Paolo Gramaglia e la moglie Laila

È merito della valente coppia Laila e Paolo Gramaglia, patron del ristorante President di Pompei (una stella Michelin) e delegato Euro-Toques per la Campania, rinverdire la cultura dei pani pompeiani sapendoli proporre alla loro tavola a beneficio della loro clientela gourmet. Paolo è in cucina. Laila è sommelier ed è al governo della sala. Ha una cultura profonda dell’antica Pompei e una suadente capacità divulgativa. Storytelling? No, molto di più. Andiamo oltre il racconto e riviviamo con lei la vita di quella Pompei mai morta.

Laila, la moglie di Paolo Gramaglia, è sommelier

Nella logica pragmatica del “primum vivere…” diviene addirittura ovvietà affermare che nell’antica Pompei ci si cibava di pane, ma sorprende quanta importanza vi fosse data
I reperti carbonizzati di cibo, gli affreschi sui muri delle case ed i racconti di autori quali Apicio, documentano e testimoniano le abitudini alimentari dei romani pompeiani e di conseguenza quali erano i pilastri della loro cultura materiale. La cucina pompeiana era ricca di fibre, di proteine vegetali e di minerali.

Una dieta mediterranea ante litteram?
Se non proprio una dieta mediterranea così come la conosciamo noi, diciamo che vi erano somiglianze non da poco. Plauto definì i pompeiani “mangiatori di erbe”; ci si cibava di verdure, di frutta e di pane. Anzi, di “pani”.

Perché insistiamo su questa declinazione al plurale? Non era il pane una semplice commodity?
No, assolutamente, di pani ve ne erano ben dieci tipi. A Pompei si produceva pane di qualità ed i panificatori in virtù della loro maestria si candidavano alle elezioni ponendo la qualità dei loro pani a garanzia del loro “saper fare”.

Abbiamo idea di quanti panifici esistevano a Pompei?
Certo! A Pompei vi erano ben trentacinque panifici con forni a legna, le macine di pietra lavica ed i banchi di vendita. Le macine erano fatte girare a mano dagli schiavi o dagli asini.

E abbiamo idea della produzione giornaliera di pane?
Parliamo all’incirca di 15mila pagnotte, su una popolazione stimata di 20mila abitanti. Secondo Plinio, fu nel 171 a.C. che nacque a Pompei il mestiere del panificatore professionista. In breve tempo si costituirono in corporazione, il collegium pistorum. La loro attività era considerata di tale importanza sociale che in start-up ricevevano un contributo dallo Stato.

I dieci diversi tipi di pani significava anche l’utilizzo di diverse farine?
Ovviamente sì. Le farine bianche, raffinate e costose, arrivavano a Pompei via mare dall’Oriente. Altre farine, considerate di scarto, venivano usate per il pane ad uso dei plebei.

Facciamo una prima classificazione di questi pani?
Volentieri. La prima classificazione era in funzione della qualità. Ne sortivano tre specie: il pane nero plebeius, consumato dai poveri; il pane bianco secundarius, migliore del precedente ma non finissimo; il pane di lusso, panis candidus, mundus, consumato principalmente dai patrizi.

Altre suddivisioni?
Sì. Il cibaricus, un pane scuro non costoso di forma allungata. Ed anch’esso di forma allungata, il secundarius fatto con farina integrale. Il pane peggiore era il furfureus, fatto con la crusca e destinato agli schiavi ed ai cani. Ai soldati era riservato il pane militaris, castrenses, e ai marinai il nauticus. Entrambi erano praticamente delle gallette atte ad avere tempi lunghi di conservazione.

Vi erano pani di pregio?
Sì, ed erano ovviamente destinati alle classi abbienti: il bucellatus alla cui cottura faceva seguito una “asciugatura” nel forno caldo così da divenire sorta di pane biscottato ed il pane artalaganus, il pane delle feste, impastato con canditi, erbe aromatiche, miele, uva passa e vino. Infine le focacce, straordinariamente simili a quelle che mangiamo noi oggi, condite con olio e rosmarino oppure olio e olive.

Una carrellata davvero esaustiva.
Niente affatto! Va ricordato il siligineus, il pane bianco più pregiato destinato ai patrizi. La peculiarità di questo pane era la sua forma: circolare e con traccia di linee per dividerlo in otto spicchi, onde facilitarne la condivisione tra i commensali.

Vi erano ritualità in merito al consumo dei pani?
Sì, una molto importante. Dividere il pane era compito del pater familias che decideva se e quanto darne ai commensali in base alla loro importanza ed al ruolo che occupavano in società.

Un detto sardo recita: chi ha pane non muore di fame. E chi comprende cosa abbia significato il pane nel cammino dell’uomo andrà lontano perché sa che viene da lontano. L’area archeologica di Pompei città morta? Diremmo proprio di no.

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Alberto Lupini


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